Ricordo di Dionigi Tettamanzi. Un cardinale aperto al dialogo
Vittorio Bellavite 11/09/2017
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 31 del 16/09/2017
La morte del card. Dionigi Tettamanzi ha suscitato partecipazione diffusa e molti commenti incentrati quasi esclusivamente sulla sua attenzione per i poveri, i migranti, i problemi della disoccupazione, ecc. La sua vita richiederà però una riflessione più approfondita perché essa si è intrecciata molto anche con la politica, come capita a ben pochi cardinali. Elenco alcune piste di ricerca.
Tettamanzi fu un diligente professore di teologia morale nella sua diocesi per trent’anni, poi ebbe una rapidissima e imprevista carriera nella struttura ecclesiastica. Da fonte certa ho saputo che deluse i suoi colleghi moralisti rifiutandosi di partecipare alle posizioni critiche nei confronti della linea ufficiale su questioni etiche; di qui – mi è stato detto – le sue “promozioni”. Dopo due anni come vescovo di Ancona, divenne subito segretario generale della Cei per quattro anni, con Ruini presidente. Questo è il periodo da chiarire della sua biografia, poco positivo se visto dalla prospettiva di chi non condivideva la linea assunta dalla Cei in quegli anni, sponsorizzata da papa Wojtyla. Poi fu vescovo di Genova per 7 anni. Anche questo periodo andrà esaminato. Io ricordo quanto, in occasione del G7 di Genova del luglio 2001, suscitò consensi la sua apertura ai giovani ed alle associazioni cattoliche, tipo Pax Christi, Acli e altre, che si ritrovarono alla chiesetta di S. Antonio a Boccadasse, alla periferia della città, dove ci fu il concentramento dell’area del dissenso cristiano nei confronti della riunione dei potenti della terra.
Trasferito a Milano nel 2002 cercò di dare continuità, anche se con una linea prudente, alla difficile eredità di Martini (ma senza averne l’autorità). In particolare considero ottimo il suo impegno sul versante ecumenico. Avvicinandosi il Conclave con la malattia di papa Wojtyla, iniziarono a circolare voci insistenti su una sua possibile candidatura al papato. Pare però che non sia stato mai veramente in corsa, ma è possibile che egli stesso considerasse reali le sue possibilità. Fatto sta che, dopo la elezione di papa Ratzinger, molti ebbero l’impressione che egli assumesse posizioni molto più indipendenti rispetto al Vaticano e alla Cei. Faccio tre esempi, non tutti noti.
Tettamanzi, quando Benedetto XVI promulgò il Motu Proprio “Summarum Pontificum” nel 2007, che liberalizzava la messa in latino, decise che esso non si applicava nella diocesi ambrosiana perché essa aveva uno statuto indipendente dal punto di vista liturgico. Non fu cosa da poco una tale presa di distanza. Quando ci fu il caso Englaro la linea che scelse fu soft, ben lontana dagli isterismi e dalla campagna gestita dalla Cei di Bagnasco. Infine, ma questi sono fatti ben noti, il suo scontro con chi demonizzava i rom ed ogni diverso, che fosse meridionale o altro. La Lega di Bossi organizzò manifestazioni contro il cardinale. Che la linea Martini e poi Tettamanzi non fosse molto gradita a molti ambienti lo prova la lettera con cui Carron, nuovo leader di Comunione e Liberazione, chiese al papa con molta forza un nuovo vescovo, indicato con nome e cognome (Angelo Scola), dalla linea pastorale e teologica opposta.
Tettamanzi, nei confronti di Noi Siamo Chiesa, seguì la stessa linea di Martini: nessun giudizio pubblico e nessun contatto, anche se più volte sollecitato. Ritengo fondatamente che questa posizione sia stata determinata da un eccesso di timore per le possibili reazioni di chi allora gestiva la Chiesa, in Vaticano e alla Cei, e di tutti gli altri ambienti conservatori, pronti ad accusare di poca ortodossia ed obbedienza la gestione “differente” della Chiesa ambrosiana. Quando chiedemmo un colloquio, il cardinale ci fece ricevere da un suo collaboratore.
Dopo aver lasciato la diocesi penso che Tettamanzi si sia sentito ben più libero. Anche Martini disse cose da pensionato che sicuramente pensava da tempo ma che non aveva mai detto.
Gli chiesi di parlargli, mi rispose subito positivamente. Mi ascoltò a lungo, alla fine mi disse che, all’occasione, avrebbe parlato bene di Noi Siamo Chiesa con i suoi confratelli. «Tutti qui, (a Triuggio in Brianza dove si era ritirato) – mi disse – mi chiamano don Dionigi»; e poi: «quando si discute, è il merito di quanto si dice che conta, io e Lei allora siamo alla pari, valgo per quello che dico, non per chi sono». Gli portai la storia dei Concili di Luigi Sandri che credo abbia letto con interesse, perché si mise in contatto con Luigi.
Nel secondo incontro gli portai l’autobiografia di Giovanni Franzoni e gli chiesi, di mia del tutto personale iniziativa, se poteva intervenire perché papa Francesco inviasse a Giovanni un messaggio di fratellanza. Mi disse che era del tutto d’accordo su questo auspicabile intervento e che si impegnava a trovare il modo migliore per suggerire la cosa al papa. A causa della sua successiva malattia ho perso i contatti e non sono in grado di sapere se questo intervento è stato fatto e, del caso, con quale esito. Ora Giovanni e Dionigi, là in alto, fraternizzeranno senza limiti.
* Coordinatore nazionale di Noi Siamo Chiesa
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