MEMORIA. ALI RASHID RICORDA MAHMOUD DARWISH
[Dal quotidiano “Il manifesto” del 14 agosto 2008 col titolo “Palestina. La
voce piu’ bella” e il sommario “Mahmoud Darwish, il grande poeta palestinese
scomparso, sintesi della storia del suo popolo”.
Ali Rashid e’ stato a lungo il primo segretario della delegazione
palestinese in Italia; poi parlamentare italiano, eletto alla Camera dei
Deputati nelle elezioni dell’aprile 2006. Fine intellettuale di profonda
cultura, conoscitore minuzioso degli aspetti storici, politici, economici e
culturali della situazione nell’area mediorientale, esperto di questioni
internazionali, acuto osservatore della cultura e della societa’ italiana e
protagonista dell’impegno civile e della cultura democratica nel nostro
paese. E’ figura di grande autorevolezza per rigore intellettuale e morale,
ed e’ una delle piu’ qualificate voci della grande tradizione culturale
laica palestinese. Suoi scritti appaiono sovente nel nostro paese sui
principali quotidiani democratici e sulle maggiori riviste di cultura e
politica.
Mahmoud Darwish (1941-2008) e’ considerato il maggior poeta palestinese del
XX secolo, e uno straordinario lottatore per l’umanita’. Al suo ricordo
abbiamo dedicato il n. 212 di “Voci e volti della nonviolenza”, cui
rinviamo. Materiali utili sono nel sito www.mahmouddarwish.com/arabic (in
arabo) e www.mahmouddarwish.com/english (in inglese)]
Quante vite in una vita sola, quanta forza in una persona sola, quante
storie in una storia sola. Mahmoud Darwish era l’emblema della Palestina e
la voce piu’ bella del suo popolo. La sua grinta esprimeva e alimentava la
forza di tutti i palestinesi e ora la sua morte, a lungo combattuta, esprime
il graduale declino della rivoluzione e della sua generazione. Era uno degli
ultimi capisaldi del movimento progressista non solo in Palestina, ma in
tutta la regione. Da solo bastava a dimostrare che la sinistra e’ ancora
viva e occupa ancora grandi spazi nella coscienza del mondo arabo, era
l’ultima frontiera prima dell’eclissi, l’ultimo faro nella notte. La sua e’
una sintesi della nostra storia. E questa purtroppo non e’ retorica.
“A 7 anni smisi di giocare e ricordo bene come e perche’: in una notte
d’estate (…) fui improvvisamente svegliato da mia madre e mi trovai a
correre con centinaia di contadini nei boschi, inseguito dalle pallottole.
Quella notte ha messo fine alla mia infanzia, non chiedevo piu’ nulla, ero
diventato improvvisamente adulto. dopo piu’ di un anno mi dissero che saremo
tornati. Tornare a casa significava per me la fine della provocazione dei
ragazzi libanesi che mi insultavano con l’epiteto umiliante di ‘profugo’.
dopo tanta fatica mi trovai in un certo villaggio. Che delusione! Non era il
mio (…). Non capivo come avesse potuto essere distrutto un villaggio
intero. Non capivo come fosse accaduto che il mio intero mondo fosse
sparito, ne’ chi fossero quelli che lo avevano annientato”.
Cosi’ il poeta racconta la sua infanzia e la delusione diventa il ritmo che
ha scandito la sua vita e quella della nostra intera generazione. E con la
distruzione del suo villaggio, Al Barweh, il luogo nella sua identita’, come
tutte le vittime della pulizia etnica, assume una dimensione simbolica
espressa attraverso riferimenti oggettivi al mondo interiore, gli ulivi, il
mare, il cavallo, la casa, il pozzo, la terra. Il ricordo, il ritorno sono
il desiderio impellente, il sogno tormentato di tutti gli esiliati:
“Torniamo a casa. Conosci la strada, figliolo? – si’ padre. A Oriente del
carrubo sullo stradone, un gelsomino che attornia un cancello, impronte di
luce sulla scala di pietra, un girasole scruta quello che c’e’ dietro; nella
corte un pozzo, un salice e un cavallo, e dietro il recinto un domani che
sfoglia il nostro archivio. (…) portero’ la nostalgia dal suo inizio e dal
mio, percorrero’ questo sentiero sino alla sua fine e alla mia”.
Nessuno prima di lui ha saputo gridare tutto il nostro dolore e la nostra
nostalgia: “Ho nostalgia del pane di mia madre/ del caffe’ di mia madre/
delle sue carezze ho nostalgia. Cresce l’infanzia in me/ e m’innamoro della
vita, mia vita/ se dovessi morire avrei vergogna/ del pianto di mia madre.
Prendimi/ dovessi ritornare, scialle per la tua frangia, copri le mie ossa
con erba/ fatta pura dal tuo passo/ legami/ con una ciocca di capelli/ con
un filo dell’orlo della veste/ che io diventi Dio. Divento Dio se tocco il
tuo cuore. (…) Sono invecchiato rendimi le stelle dell’infanzia/ fammi
tornare/ come tornano gli uccelli/ al nido della tua attesa”. E quando
Marcel Khalife riusci’ a comporre in canzone queste sue parole, nessuno dei
diecimila presenti nel teatro di Beirut pote’ trattenere le lacrime,
ascoltando quello che diventera’ un secondo inno nazionale per tutti gli
esuli palestinesi in giro per il mondo. Era un inno nazionale per la vita,
gridato da tutta una generazione. Ben diversa la situazione oggi, tempo in
cui si glorifica la morte. E mi chiedo se senza amore per la vita si puo’
esser degni di pensare il futuro.
“Narrano nel mio paese. Narrano con tenerezza/ del mio amico che se ne e’
andato/ non ci ha detto ci vediamo domani/ non ha detto addio a sua madre/
non ha lasciato una lettera/ che ravvivi le tenebre della sua notte. Ella si
rivolgeva alla notte, alle stelle/ a Dio/ avete incrociato uno scomparso/
due stelle sono i suoi occhi, le mani due cesti di mirto/ il petto un
guanciale per la luna/ il mio amico se n’era andato/ e tornato in un
sudario”. Altri protagonisti del suo tempo, come Edward Said, sono stati
inghiottiti dall’esilio e non sono nemmeno tornati in un sudario.
La Palestina e’ cambiata, non assomiglia piu’ a se stessa, ce ne sara’ solo
la meta’ al suo funerale, la meta’ stanca, smarrita, che non e’ piu’ in
grado di recuperare la propria storia, ma ha bisogno dei simboli di una
volta e fara’ per lui un monumento a Ramallah, per decorare il proprio
fallimento e tirare ancora un po’ a campare. L’altra meta’ e’ figlia del
degrado del nostro tempo, non si riconosce nella nostra storia, non ha piu’
la nostra memoria.
Con parole semplici Mahmoud Darwish aveva preso la distanza dalla guerra
intestina che divide il suo popolo, e si vergognava. Cosa e’ rimasto di noi
e delle nostre sensazioni? E’ stata per lui un’ennesima delusione quando gli
ho raccontato della scomparsa della sinistra italiana dal Parlamento, per la
prima volta nella storia della Repubblica, di una sinistra che non sa chi e’
Mahmoud Darwish e non ha trovato il tempo per esprimere le sue condoglianze.
Tempi duri ci attendono, sembra che il male non abbia fondo. Erano giuste le
nostre intuizioni, ma non abbiamo avuto la forza, siamo inciampati nella
nostra incoerenze e improvvisazioni, siamo scivolati su improbabili
scorciatoie.
“Orizzonte plumbeo sparso all’orizzonte/ strade di conchiglie rotanti in
strade. Dall’oceano all’inferno, dall’inferno al Golfo/ da destra a destra,
al centro/ ho visto solo una forca/ una forca con una sola corda per due
milioni di teste (…)”. Ma la speranza e’ l’ultima a morire: pace, liberta’
e giustizia in nome della nostra storia rimangono la nostra meta.
(da Notizie minime della nonviolenza in cammino n. 550 del 17 agosto 2008)
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