10. Iconoclasta
Se Dio è nonviolento, lento all’ira e ricco in misericordia, la storia del male del mondo quale
è adombrata nel mito antico del peccato originale deve stare in un altro modo. Non può essersi
trattato di un peccato di lesa maestà, non può essere che, per ristabilire la sua autorità offesa, Dio abbia respinto l’uomo lontano da sé, sfigurandone la natura da lui stesso plasmata. Inutilmente, pressato dai teologi conservatori, Paolo VI tentò di dire che il Concilio Vaticano II aveva confermato la dottrina del peccato originale: è vero che essa era stata inclusa nei documenti preparatori, ma l’assemblea dei vescovi l’aveva lasciata cadere; anzi il Concilio aveva detto il
contrario. Sicché la tragedia del peccato e delle sue conseguenze deve avere un’altra lettura.
Papa Francesco l’ha data nella preghiera che ha fatto il 26 maggio 2014 a Gerusalemme nel
memoriale di Yad Vashem, dedicato alle vittime della Shoah. Un papa che mette in preghiera la sua
riflessione nel luogo dove si ricordano sei milioni di ebrei uccisi non può dire parole consumate e
rituali; al contrario, egli non può che mettere in gioco se stesso e il suo ruolo con tutta la sua fede e
la sua teologia, stando però ben fermo nell’oggi. E papa Francesco lo ha fatto riconoscendo nello
sterminio “un male quale mai era avvenuto sotto la volta del cielo” e trattando la Shoah come se
essa fosse, per l’età moderna, il vero peccato originale, il vero male che attende di essere redento.
Nel Mausoleo dove si ricorda l’orrore per il quale è entrata nel mondo la parola “genocidio”,
il papa ha fatto risuonare infatti le parole che secondo la Genesi Dio rivolse ad Adamo dopo il
primo peccato: “Adamo dove sei?”; e così ha continuato: «Dove sei uomo? Dove sei finito? In
questo luogo, memoriale della Shoah, sentiamo risuonare questa domanda di Dio: “Adamo, dove
sei?”. In questa domanda c’è tutto il dolore del Padre che ha perso il figlio. Il Padre conosceva il
rischio della libertà, sapeva che il figlio avrebbe potuto perdersi… ma forse nemmeno il Padre
poteva immaginarsi una tale caduta, un tale abisso! Quel grido: “Dove sei?” qui di fronte alla
tragedia incommensurabile dell’Olocausto, risuona come una voce che si perde in un abisso senza
fondo… Uomo, chi sei? Non ti riconosco più”».
In tale rilettura biblica del papa a Gerusalemme la parola di Dio che chiede conto del
peccato originale è rivolta non ad Adamo ma a Caino. Vuol dire che il primo peccato è stato quello
di Caino.
Dunque in questa meditazione del papa il peccato che sta prima di tutti i peccati, il peccato
per il quale Dio non riesce più a riconoscere l’uomo, è un peccato di olocausto. «Chi ti ha convinto
che eri dio? Non solo hai torturato e ucciso i tuoi fratelli, ma li hai offerti in sacrificio a te stesso,
perché ti sei eretto a Dio». Dunque non è uno di quei peccati di cui si è parlato leggendo i racconti
della Genesi, un peccato di desiderio non represso, di lussuria, di orgoglio, di insubordinazione
infantile. Non è neanche il peccato di voler diventare come Dio. Quello non è un peccato, è una
vocazione: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che sta nei cieli” dirà Gesù, e
“l’imitazione di Cristo” è un classico del devozionismo cristiano.
Si tratta invece di un peccato sacrificale: è, sì, il farsi come Dio, credersi Dio, ma dopo
averlo deturpato, foggiandosi un Dio violento, che ha potere sulla vita degli altri e perciò esigendo
la vita, la libertà, il lavoro degli altri in sacrificio, offrendoli come olocausto a se stessi. Per questa
ragione, appesi a questo peccato, padre di tutti i peccati, ci sono omicidi, stragi, sfruttamento,
torture, schiavitù, stupri, e ogni altro genere di confisca e prevaricazione dell’uomo sull’uomo. In
questo senso è un peccato originale. Sul sacrificio degli altri, e sull’arrogarsi il potere di esigerlo, a
imitazione di un falso Dio, può essere fondato tutto un mondo, un’economia, una cultura. È quello
che ci ha spiegato René Girard, con la sua teoria del sacrificio fondatore e strutturante dell’intero
ordine sociale.
Se questa è la natura del primo peccato, si capisce perché la fede dice che per mezzo suo la
morte è entrata nel mondo, e perché esso avesse bisogno di un Dio redentore. È perché in questo
peccato – l’uomo che si fa Dio e sacrifica gli altri a se stesso – si congiungono una cattiveria
dell’uomo e una contraffazione di Dio. Non sarebbe così pericoloso per gli altri l’uomo che si crede
Dio, se il Dio che crede di essere non fosse un idolo che si soddisfa con sacrifici umani. La fede
dice che da un tale peccato l’uomo e la donna non sarebbero in grado di uscire da soli. C’era
bisogno che Dio stesso rovesciasse i ruoli, che si mostrasse come colui che aborre i sacrifici e
offrisse invece se stesso in sacrificio per gli altri; perciò un giorno Voltaire, citato da papa
Francesco nella Evangelii Gaudium, potrà dire nel Trattato sulla tolleranza: «Se volete
assomigliare a Gesù Cristo siate martiri e non carnefici». E perciò «noi cristiani» ha detto il papa
all’Angelus nel giorno della festa dell’esaltazione della croce, il 14 settembre 2014 «benediciamo
con il segno della croce. Noi non esaltiamo le croci, o tutte le croci: esaltiamo la croce di Gesù,
perché in essa si è rivelato al massimo l’amore di Dio per l’umanità». La domanda anselmiana:
“Perché Dio si è fatto uomo?” deve avere allora un’altra risposta, quella data dal Concilio: si è fatto
uomo per distruggere con l’autorità di Dio la falsa immagine di Dio, per offrire riconciliazione agli
uomini placati, per fare a pezzi le icone degli idoli omicidi, questo Dio iconoclasta.
Nell’ora del pianto
Però nonostante questo i sacrifici non sono finiti, le guerre, i genocidi, le stragi, hanno
continuato a contaminare il mondo. Perciò ci devono essere altre ragioni, non solo il mettersi
dell’uomo al posto di un Dio sacrificatore. Il papa ha continuato a pensarci, ed è tornato a riflettere
su quei primi dialoghi tra Dio e l’uomo raccontati nella Genesi; lo ha fatto il 13 settembre 2014 a
Redipuglia, quando è andato a pregare prima nel cimitero austro-ungarico, poi nel sacrario militare
che allinea, come lo schieramento di un corpo d’armata, centomila tombe di caduti italiani con su
scritto: “Presente!” Dalla memoria della Shoah Francesco è risalito a quella della prima guerra
mondiale che l’aveva preceduta, e in cui, come ha ricordato all’Angelus, il giorno dopo, erano
caduti otto milioni di giovani soldati e circa sette milioni di civili. Perché? «Quando non c’è
un’ideologia, c’è la risposta di Caino: “A me che importa?”», ha detto il papa. “Sono forse io il
custode di mio fratello?” (Gen. 4,9). La guerra non guarda in faccia a nessuno: vecchi, bambine,
mamme, papà… “A me che importa?”. Sopra l’ingresso di questo cimitero, aleggia il motto
beffardo della guerra: “A me che importa?”. Dunque per Francesco l’altro grande motivo che
perpetua i sacrifici è l’indifferenza, il tirarsi fuori, il non curarsi degli altri.
Ha commentato Alberto Melloni sul Corriere della Sera: «Ai piedi di un mausoleo sul quale
il fascismo aveva costruito una propaganda nazionalista, Francesco ha denunciato il mussoliniano
“me ne frego” (ovvero “che me ne importa”) come matrice della guerra. È stato come se Francesco
con la sua voce avesse ricoperto in un istante l’infinita serie dei “presente!” scolpiti dal
nazionalismo sulle tombe dei centomila morti con un’altra parola: “follia!”».
Solo pochi giorni prima alla Mostra del cinema di Venezia era stato presentato un
documentario dell’Istituto Luce in cui si rievocava la colonizzazione della lingua italiana tentata dal
fascismo, col passaggio dal “lei” al “voi”, la repressione dei dialetti, il bando delle parole straniere,
il tentativo di imporre con un’unica lingua un’unica cultura. Il documentario compendiava il tutto
sotto il titolo “Me ne frego”, che nel suo primo significato suonava come una sfida, come uno
sberleffo alla morte, propria ed altrui, come diceva la canzone degli squadristi: “Per D’Annunzio e
Mussolini eià eià, eià alalà!… Me ne frego è il nostro motto, me ne frego di morire per la santa
libertà!”
Dunque nella catena delle cause dei sacrifici, dei genocidi, degli stermini e delle guerre c’è
da un lato il farsi come Dio, scalarne il trono sui cadaveri, e dall’altro c’è l’insulto alla morte,
l’infischiarsene di tutti, l’indifferenza alla vita, al morire, al dolore degli altri.
Appellandosi a un rigoroso fondamento biblico, papa Francesco indica le due vie di uscita.
La prima è quella aperta dal Cristo che ha distrutto l’icona del Dio sacrificatore e le ha sostituito il
legno su cui Dio è sacrificato, questo Dio iconoclasta; la seconda è quella che, rovesciando la
risposta di Caino, l’uomo stesso deve intraprendere, l’uomo dell’“I care” di milaniana memoria.
Infatti se tante vite sono state e sono spezzate, ha esclamato il papa, è «perché l’umanità ha detto:
“A me che importa?”. Questo atteggiamento è esattamente l’opposto di quello che ci chiede Gesù
nel Vangelo», e che consiste nel riconoscere in Gesù stesso “l’affamato, l’assetato, il forestiero,
l’ammalato, il carcerato”, consiste nel prendersi cura del fratello, a imitazione di Dio. Invece non lo
facciamo e, come Caino, abbiamo perso anche la capacità di piangere. Perciò Francesco ha
concluso dicendo: «Con cuore di figlio, di fratello, di padre, chiedo a tutti voi e per tutti noi di
passare da “A me che importa?”, al pianto. Per tutti i caduti della “inutile strage”, per tutte le
vittime della follia della guerra, in ogni tempo. Il pianto. Fratelli, l’umanità ha bisogno di piangere,
e questa è l’ora del pianto».
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