Giovanni Avena maestro di libertà
Tratto da: Adista Documenti n° 35 del 15/10/2022
Qui l’introduzione a questo testo.
Vorrei rassicurare quanti sono qui che non mi occupo di cause di beatificazione (nonostante sia uno storico della Chiesa non ho mai avuto alcun rapporto con la Congregazione delle cause dei santi di un tempo, né di conseguenza ho ottenuto i lauti profitti lucrati da coloro che si occupavano di questa attività come consulenti e periti) e nemmeno ho mai pronunciato un panegirico. Forse per questo Valerio Gigante mi ha invitato a ricordare Giovanni Avena, sicuro che non avrei offeso la sua memoria con una vacua e retorica celebrazione.
Quanto dirò questo pomeriggio è soltanto una tappa intermedia di una ricerca storica che potrebbe essere dedicata a Giovanni. L’idea mi venne già lo scorso anno in questa stessa sala ascoltando la galleria di testimonianze spontanee che ci offrirono alcuni suoi amici. Nella Chiesa italiana abbiamo bisogno di non smarrire la memoria di figure come lui che hanno attraversato alcuni decenni del post concilio con intelligenza e senso critico, rifiutando compromessi e cordate. Ma anche il giornalismo italiano potrebbe trarre beneficio dal ricordare che vi sono stati esempi, rari, di giornalisti “non negoziabili”, giusto per utilizzare una espressione tanto volgarmente abusata e qui, invece, per lui restituita al suo senso autentico di una informazione libera e liberante che non è, quindi, in vendita, che non è ricattabile e che non si ispira agli usi delle veline della censura fascista.
Per questo lavoro, del quale oggi pomeriggio offrirò un piccolo saggio, ho seguito il metodo storico della raccolta delle fonti orali. Fonti spesso neglette dall’Accademia. Considerate con disprezzo di scarso o nullo valore e che al contrario offrono nella loro fragilità una inattesa ricchezza e dimostrano quanto sia importante raccogliere per tempo la voce dei testimoni, voci che scompaiono per sempre privandoci di un patrimonio di esperienze, di ricordi e di ripensamenti della propria vita che si offrono allo storico come fonti viventi della memoria pur se sempre problematiche e da sottoporre ad analisi critica come tutte le fonti, ma fonti uniche e irripetibili. Infatti, a differenza di altre fonti che possono comunque sopravvivere anche a cataclismi e incuria la fonte orale, con la sua vivezza e la sua forza fondata sul ricordo, è destinata a perdersi per sempre se non viene o trasmessa o registrata, si tratta di voci che vengono a noi dal passato, per riprendere il titolo evocativo di un libro fondamentale per la storia orale. Ma sono voci che progressivamente si fanno flebili e poi afone se nessuno è disposto a dargli ascolto, perché l’unico vero limite della memoria orale è la sua labilità: si perde con rapidità, insieme – purtroppo – alla vita delle persone. Il che deve tradursi in uno stimolo a raccogliere velocemente quelle voci. L’attenzione alle fonti orali ha ormai una sua propria tradizione storiografica che, dagli Stati Uniti degli anni ‘30 del XX secolo – con la raccolta delle testimonianze degli schiavi di origine africana –, si diffuse in Europa dagli anni ‘70 e oggi ha un solido statuto scientifico che stenta però a essere riconosciuto fuori dall’ambito circoscritto degli specialisti che recuperano le fonti orali e se ne servono. In Italia il lavoro sulle fonti orali ha trovato applicazioni di straordinario valore e uno dei primi contributi fu nel 1966 La strada del davai di Nuto Revelli che poi nel 1977 pubblicò Il mondo dei vinti, lo stesso anno di un importante numero monografico di “Quaderni storici” dedicato al tema. Seguirono poi una quantità di studi tra i quali i fondamentali lavori di Alessandro Portelli da L’ordine è già stato eseguito a Storie orali e nel 2005 un altro importante fascicolo di “Quaderni storici” e poi la nascita dell’Associazione italiana di storia orale nel 2006. Questo genere di storia ha una sua specifica caratterizzazione nella tipologia delle fonti, sovente trascurate dalla storia tradizionale, poiché utilizza materiali che spesso provengono dal margine della società. Non solo storie di esclusi e di senza voce – donne, stranieri, operai, impoveriti, migranti, scampati a persecuzioni – ma anche voci di gente comune di cui la storia ufficiale quasi sempre non si occupa, ma che invece dovrebbe risultare indispensabile per una storia della memoria a partire dalle memorie individuali. È evidente che anche queste memorie usate come fonti storiche hanno dei limiti e comportano per lo storico una utilizzazione critica e un metodo scientifico. Tuttavia, la loro raccolta, conservazione e uso risponde a un dovere etico civile e alla possibilità di riconciliare la storia con la memoria. Inevitabilmente la storia orale si discosta da quella politica e ufficiale e possiede una sua intrinseca pericolosità perché pretende di restituire voce ai muti della storia privilegiando alcuni settori di ricerca solitamente marginali. Essa rifiuta di credere che la realtà si comprende meglio dall’alto, ma che solo collocandosi in basso ci si trovi nell’orizzonte giusto per capire e per meglio smascherare le mistificazioni del potere. A me appare che proprio questa opposizione alla mistificazione del potere, in particolare qui quello clericale, sia uno dei tratti più autentici della vita di Giovanni e forse il debito più grande che riconoscono di avere con lui diversi suoi amici. Lo ricorda con chiarezza il vescovo Raffaele Nogaro:
L’incontro con Giovanni Avena è stato uno dei più significativi della mia vita […] e da subito la sua personalità sollevò tutto il mio interesse: un uomo riservato eppure intensamente propositivo. Mi chiese, infatti, senza preamboli di far visita alla parrocchia di Morena nella lontana periferia di Roma dove egli lavorava su invito del parroco Baldassarre Pernice, un prete di grande valore umano. Era un angolo di pastoralità sinceramente evangelica dove la fraternità era palpabile. Dopo questo incontro di grazia, mi fece visitare la redazione di Adista. Sperimentai l’esultanza dello Spirito nell’incontrare persone genuine, cristiani pieni di Vangelo e liberi dalle maglie soffocanti delle gerarchie ecclesiastiche e dal clericalismo. Con Giovanni, quindi, mi incontravo annualmente in occasione della Conferenza Episcopale.
Ecco gli ambiti di impegno che emergono da queste conversazioni: la dimensione delle fede e l’impegno giornalistico entrambi vissuti nella luce della ricerca della libertà. Sulla prima assume un valore decisivo quanto ricorda don Baldassarre:
Il ricordo più importante che io mi porto di Giovanni è il suo lavoro ad Adista che era un lavoro di ascolto, ma anche di intervento sulle tematiche di Chiesa, ma non ecclesiastiche come tali soltanto, ma soprattutto di Chiesa nel senso più pieno del termine cioè che cosa è Chiesa. Partiamo da lì. Il dato di fondo secondo me è che il suo lavoro ad Adista l’ha scavato dentro e gli ha fatto fare un percorso di vita spirituale, cioè una riscoperta di libertà. Cosa che io ho trovato l’anno scorso perché io dopo tanto tempo sono riuscito a incontrarlo. Lui è venuto a trovarmi a Corciano alcuni anni fa poco prima che io mi operassi, ed è venuto con la scusa di cercare qualcuno che insegnava italiano ai due badanti che aveva a casa, una scusa buona però francamente era per rincontrarci e io poi sono andato a incontrarlo a casa periodicamente qui da Grottaferrata con l’autobus, e devo dire che ho respirato un’aria libera, un’aria di libertà, un’aria anche di serenità, di gioia, di riscoperta che rispecchiava, diciamo così, la sua interiorità e si diffondeva su coloro che erano venuti a trovarlo.
Di quella esperienza di lavoro ho raccolto la testimonianza di quattro suoi colleghi giornalisti che in tempi diversi sono arrivati a lavorare ad Adista.
Eletta Cucuzza: Ho trovato una persona molto molto disponibile, Giovanni non è mai stato quello che ti criticava a fondo per una cosa non ben fatta. No, c’era sempre il suo modo molto morbido, oserei dire affettuoso, per correggerti. Quando lui ha cominciato a venire ad Adista io non avevo ancora iniziato a scrivere. Siccome Giovanni era una persona molto umile non ti imponeva l’argomento, non imponeva la posizione da tenere. […] per cui piano piano ho imparato, e lui mi ha dato moltissimo perché ho imparato questo mestiere, che peraltro è bellissimo. Sicuramente la maieutica era un suo dono. E poi non aveva paura, non si è mai fatto spaventare dalle minacce perché era molto sereno, molto tranquillo, perché sapeva in coscienza che la sua azione era giusta. Ed era così refrattario agli attentati alla libertà. Evangelisti, uomo di fiducia di Andreotti, contattò Giovanni e gli chiese se aveva bisogno di qualcosa. Giovanni disse “Grazie no”. E un’altra volta la richiesta la fece Andreotti di persona. Giovanni disse: “Grazie. Stiamo bene così”. Andreotti pensava di aiutarci, ma ovviamente era un modo per controllarci. Giovanni sapeva benissimo quanto gliene importasse della chiesa ad Andreotti, però alla politica ovviamente era interessato per cui sapeva bene che averci, dal punto di vista politico, come nemici era peggio, per cui ha provato in questi due modi perché ci avrebbe controllato meglio ma gli è andata male.
Ludovica Eugenio: Per me Giovanni è stato in qualche modo un padre nel giornalismo nel senso che io ero arrivata ventiquattrenne a Roma da Torino studentessa laureanda e lui mi ha preso un po’ sotto le sue ali. Mi ha insegnato tutto quello che so in termini di tecnica del giornalismo. Io ero arrivata lì con le mie armi da studentessa di filologia e lui mi ha insegnato a scrivere degli articoli. Con la sua grande forza argomentativa e con la sua asciuttezza. Mi ricordo questi primi articoli stravolti e completamente trasformati ma senza mai metterci il peso della mia incompetenza o della mia giovinezza. Cioè sempre con lo sguardo rivolto al futuro e sempre con un grande incoraggiamento. Io ho l’immagine di me che entro per la prima volta nella redazione di Adista e lui che lentamente mi fa un po’ da tutor, mi si affianca, anzi io mi affianco a lui. E quello che ho imparato dell’etica, anche giornalistica, lo devo a lui. Far parlare la notizia e non far sentire troppo la voce del giornalista o l’ego del giornalista. Far parlare la notizia e far parlare i protagonisti, dare voce alle notizie che nessun altro dà. Non posso pensare a una scuola migliore, perché è stata proprio una scuola sul campo. Certo ci sono state varie fasi, perché parlo del 1990, quindi ormai sono più di trent’anni fa. È stato un rapporto che è molto cresciuto nel tempo e che a un certo punto ha potuto anche reggere dei momenti di tensione, nel senso che Giovanni aveva un carattere molto forte e i momenti di tensione sempre legati a questioni assolutamente congiunturali. Ma in quelle situazioni c’era proprio rispetto per l’opinione diversa. Ci si scannava su un tema però alla fine ci si sentiva compresi nella propria diversità di provenienza di opinioni. Quindi questo sicuramente è stata un’altra grande scuola che devo dire è rimasta un po’ nel DNA di Adista, anche quando è toccato a me prendere l’incarico di direttore responsabile sei anni fa e per me è stata la priorità assoluta. Anche se da noi questi ruoli hanno solo una funzione giuridica mi son detta devo pensare a uno stile con cui andare avanti: penso alla collegialità perché lui ha sempre insistito molto su questo aspetto della collegialità. Cioè di un lavoro collegiale tanto nella produzione quanto nella divisione dei ruoli e dei compiti. Ma soprattutto nella produzione delle idee e nella produzione di pensiero e questo ha creato una esperienza assolutamente unica almeno per quel che conosco di questo mondo del giornalismo. Un luogo di lavoro assolutamente straordinario perché non è mai stato soltanto un luogo di lavoro. Insomma, è stato un luogo in cui questo procedere orizzontale e appunto collegiale ha segnato a tal punto anche i rapporti interpersonali che non sono mai stati solo tra colleghi. Ecco, c’è un tessuto forte di amicizia, di vera amicizia, un rapporto assolutamente fondamentale, per quanto mi riguarda, con le persone con cui ho condiviso questi anni e credo che il merito di questo sia proprio suo, perché lui ha sempre avuto come stella polare appunto quella di una gestione e di una visione di governo collegiale. I ruoli sono sempre stati ruoli funzionali e non c’è mai stato nessuno al di sopra degli altri.
[…] lui aveva sempre un credito di fiducia nei confronti anche di chi arrivava da fuori a collaborare con Adista. C’era sempre una grande accoglienza. Poi alla fine valutava che non andava bene, però era bello l’atteggiamento con cui si accoglievano i vari collaboratori. Io mi ricordo perfettamente quando è arrivato Luca, quando è arrivato Valerio. Ma mi ricordo anche altre persone che sono arrivate in un secondo momento. Però poi alla fine lui valutava non tanto dal punto di vista professionale, perché non si è mai lasciato spaventare dal fatto che arrivasse lì uno che non sapeva fare il giornalista, perché quella era una strada. Lui guardava negli occhi delle persone e capiva se c’era la passione per la libertà, per cui tante persone che magari arrivavano per lavorare con noi e che anche partivano da una buona preparazione però non avevano quel lampo negli occhi della passione politica lui tendeva alla fine a scartarle. Questa è una cosa che non ho vissuto io sulla mia pelle, ma l’ho vista negli anni. Lui ha saputo circondarsi di persone che avevano una passione e credo che questa sia stata un’altra carta vincente, non ha mai preso sotto le sue ali persone fredde o che venivano lì solo per avere un posto di lavoro o un posto per collaborare. Questo è un aspetto molto interessante perché erano un po’ un banco di prova i primi mesi. E lui saggiava proprio questo tipo di requisito, cioè se una persona che era lì aveva voglia di sperimentare un giornalismo che aveva una missione ben precisa, un compito ben preciso. La voglia proprio di condividere questo spirito che poi era in parte professionale in parte di militanza.
Luca Kocci: Per me Giovanni è stato molto importante sia dal punto di vista personale sia dal punto di vista professionale, diciamo così, è dal punto di vista professionale è più facile da dire perché di fatto mi hai insegnato un mestiere. Ma al di là del mestiere mi ha insegnato a leggere una serie di avvenimenti, di eventi, di parole, di gesti che guardavano alla Chiesa con attenzione alla realtà e andando al di là delle apparenze e mi ha insegnato a leggerli in profondità. A sviluppare uno spirito d’osservazione critico che mettesse un po’ in discussione quello che veniva detto ufficialmente. Era questo un esercizio che si faceva per confezionare pezzi, per scrivere articoli.
Lui mi ha trasmesso questa capacità di leggere la Chiesa con degli occhiali un po’ più acuti. E questo è stato importante anche per la mia vita di fede, per il mio cammino che è diventato più maturo, più adulto. Insomma, non si è fermato – come ero abituato a fare – alla superfice, ma è andato più a fondo. L’invito che lui faceva sempre era alla brevità, non alla sintesi ma all’essenzialità e che non era un, come dire, un tagliare per tagliare, era andare al punto, andare al centro, andare al cuore insomma se vuoi è una cosa anche molto molto milaniana. Un senso critico sulla istituzione ecclesiastica ma non sul Vangelo, sulla fede in sé che anzi io l’ho trovata, se mi guardo indietro, maturata e cresciuta grazie a questo esercizio di libertà.
All’inizio i pezzi passavano sulla scrivania di Giovanni perché lui li leggeva, solitamente riusciva a leggerli tutti, ad annotarli, a correggerli, poi chiamava ciascuno di noi che li aveva scritti e insieme ci si discuteva. Suggerimenti in qualche caso o le correzioni che lui aveva fatto. Questa è stata veramente una grande palestra. Perché poi vedevi il pezzo così modificato. E le modifiche di Giovanni erano sempre in due direzioni, una era quella di asciugare. I testi uscivano sempre più corti e più brevi e che però non perdevano nulla, anzi acquistavano efficacia grazie a questa cura di dimagrimento, esattamente si toglievano un po’ di orpelli, cioè quello che non serviva. Questo era il primo punto e il secondo era che questa cosa era molto milaniana. Accettare suggerimenti ma che non addolciscano il testo. Solo maggiore chiarezza e comprensibilità nel senso che se bisognava usare una parola più efficace, un verbo più efficace, magari anche più affilato questo era l’altro tipo di suggerimento che veniva sempre fuori. Per cui i pezzi entravano che magari erano e lunghi, come si dice arrotondati nei rilievi critici, e uscivano dalla stanza di Giovanni che erano più corti e più appuntiti, esattamente più acuti. Più appuntiti senza togliere nulla, ma semmai aggiungendo precisione e chiarezza nella libertà.
Mi ricordo, per esempio, i primi articoli che sulla questione degli abusi sulle religiose e sulle suore e che venivano dagli Stati Uniti. Adista fu l’unica a pubblicarli in Italia. E mi ricordo che questo suscitò forte disappunto. Attacchi aperti e velate critiche. Però Giovanni era sicuro di quello che veniva scritto. Convinto dell’importanza di denunciare si faceva scivolare addosso le critiche, gli attacchi e gli interventi che tentavano di dissuaderlo dal pubblicare. Giovanni reagiva e assorbiva tutto questo, non c’erano strumenti per fermarli.
A un certo punto una serie di editori cattolici smisero di fare pubblicità a pagamento su Adista, pagamento irrisorio, però facevano pubblicità a pagamento e una serie di editori cattolici con cui avevamo rapporti da anni gli dissero chiaramente che gli erano arrivati, come dire, ordini dalla Cei, perché parliamo dell’epoca di Ruini, di non fare più pubblicità su Adista. Questa cosa la subisci e basta, con una perdita economica non spropositata però insomma nemmeno irrilevante. Era l’atto stesso di prevaricazione e ricatto che era indicativo della sensibilità che avevano alla Cei su questi e su altri problemi.
Infine, io ringrazio Giovanni per aver potuto incontrare e conoscere alcune persone con cui probabilmente mai avrei avuto la possibilità di dialogare o di avere rapporti. Penso a Giovanni Franzoni e all’area delle comunità di base. A Enzo Mazzi o a Giulio Girardi, persone che lo chiamavano e passavano in redazione. Io magari leggevo da anni i loro scritti e poterli incontrare e confrontarmi con loro attorno a un tavolo o in altre situazioni è stato non solo emozionante ma anche un arricchimento formativo straordinario.
Valerio Gigante: Giovanni molto raramente si negava, lo faceva solo quando aveva delle cose da fare come presidente della cooperativa e come coordinatore del gruppo redazionale. Io sono stato accolto molto bene da lui. Sono arrivato quando Luca dovette partire per la Lombardia per fare i primi tre anni di insegnamento e sono stato il suo sostituto. Mi ha preso molto molto a cuore perché lui, soprattutto, aveva l’abitudine di fare lunghe chiacchierate con chi era disponibile. Non raccontava di se e della sua vicenda, ma raccontava moltissime cose di storia della Chiesa del post Concilio, molto di quello che so lo devo a lui. Quello che è successo nella Chiesa dagli anni 70 fino ad oggi l’ho imparato durante queste chiacchierate, e queste chiacchierate erano spesso originate da un articolo che io dovevo scrivere e che prima di scrivere lui mi raccontava di Monticone, dell’epoca di Ruini, mi raccontava della vicenda dei Paolini, del commissariamento dei Paolini da parte di Ruini, mi parlava di Giovanni Paolo II e della persecuzione della teologia della liberazione, mi parlava di tantissimi teologi, e degli ordini religiosi. Ogni articolo da scrivere diventava l’occasione per un approfondimento. Per me era imporrante perché significava avere consapevolezza di quello che avrei scritto. In lui credo ci fosse l’idea di aver in redazione una serie di persone che fossero particolarmente esperte della direzione del potere in Vaticano e che quindi lavorassero nella prospettiva di una militanza dal punto di vista politico.
Tutte queste testimonianze, sia per la fede sia per il lavoro giornalistico, mi appare con evidenza che convergano su un tema comune: sono sempre ispirate al principio inalienabile della libertà: conquistata, difesa e vissuta contro ogni cedimento o arrendevolezza al clericalismo e alle obbedienze cieche e incoscienti. E questo a partire dall’esperienza della metà degli anni ‘70 decisiva per Giovanni della lotta per la libertà dei ricoverati del manicomio di Palermo, una vicenda che ne ha segnato in modo indelebile la vita con una cicatrice mai rimarginata. Di quella esperienza di libertà come impegno di liberazione Ivana Santomo ha offerto diversi elementi nuovi, ricordando come alle assemblee popolari della parrocchia partecipasse un giovanissimo Peppino Impastato o Franco Basaglia – già noto per l’impegno per la chiusura dei manicomi – e soprattutto come Giovanni avesse offerto la libertà della parola ad alcuni ricoverati, che lui aveva liberato, durante le sue omelie in parrocchia:
Ha cominciato a tirar fuori anche altri malati, li faceva andare in chiesa. Un aneddoto è veramente simpatico. Dopo che questi andavano fuori dal manicomio e frequentavano la messa domenicale Giovanni ha cominciato a regalare loro 5 minuti dell’omelia domenicale. Questi ricoverati vedendo tutta questa gente che li stava a sentire erano felici perché il loro problema era proprio non essere ascoltati. Anche perché non tutti erano pazzi. È subentrata quindi la prassi che gli regalava 5 minuti dell’omelia domenicale. C’era chi parlava del tempo, chi parlava della mamma e chi magari se leggeva il giornale cominciava a fare qualche commento.
La vicenda del manicomio di Palermo e il suo drammatico epilogo, la vergognosa rimozione di Giovanni da parroco da parte delle gerarchie ecclesiastiche e la sua condanna all’esilio, ritengo meritino di essere ricostruite e conosciute perché esse mi appaiono paradigma della società e della Chiesa di quegli anni, ma anche prova del condizionamento di una mentalità mafiosa che arriva impunita fino al nostro presente. Per Giovanni fu il prezzo altissimo della libertà rispetto al quale fu poi molto più semplice per lui resistere alle richieste di ammorbidimento della linea editoriale o far fronte alle minacce di cui il potere clericale era particolarmente prodigo come afferma Valerio:
Mi ricordo che una volta Giovanni parlò con il cardinale Silvestrini o forse con il suo segretario, ma insomma era da parte del cardinale Silvestrini che si lamentava con noi in maniera benevola ma preoccupata del fatto che noi trattavamo troppo male il cardinale Pio Laghi, che fu nunzio apostolico in Argentina durante la dittatura e il suo operato rimase quantomeno controverso. Pio Laghi si lamentava del fatto che Adista lo trattava troppo male e che questo lo faceva soffrire. Sosteneva che c’erano cose ingiuste in ciò che scrivevamo e che lui non meritava poiché eravamo molto aggressivi e violenti. Mi ricordo anche una telefonata con una casa editrice, non ricordo quale fosse ma era importante, perché Giovanni era alla continua ricerca di pubblicità. Uno di questi editori cattolici gli disse che lui aveva ricevuto da Ruini l’invito a non fare più pubblicità su Adista. Ruini era intervenuto perché vedeva che su Adista compariva pubblicità di case editrici cattoliche e questo non poteva tollerarlo.
Ma il primato della libertà per Giovanni lo sottolineano ancora sia don Baldassarre sia il vescovo Nogaro che lo ebbero come amico esemplare; afferma il primo:
Il dono più grande che io porto con me di Giovanni, e che io sto maturando per tanti aspetti, è questo senso di libertà nella fede, nella vita, nella prassi anche quotidiana […], vedo che c’è un filo come se lui mi avesse passato un testimone, da amico mi ha detto fai questa strada, non me l’ha detto a parole ma ci siamo confrontati fino all’ultima volta che ci siamo visti che è stato alcuni giorni prima della morte, quando sono andato a trovarlo per il suo compleanno. […] io penso che questo è il dono più grande che io abbia avuto fino ad adesso dopo il dono della vita, il dono della mia mamma, e poi il dono dei miei amici, degli operai, di Sirio Politi e anche di Giovanni. Mi hanno detto di fare qualcosa, mi hanno trasfuso lo spirito di vita, uno spirito vero, uno spirito non legato a una struttura o a una realtà ecclesiale, politica, partitica che io ho sperimentato attraversando negli anni passati tutta la mia esperienza anche sindacale oltre che di lavoro e quindi mi rendo conto che questo è invece il grande dono che Giovanni mi ha fatto e che possiamo farci a vicenda: cioè nel momento in cui scopriamo e viviamo una realtà genuina. Come se mi avesse portato alle sorgenti di un fiume […] mi ha detto hai bisogno delle sorgenti, hai bisogno dell’acqua purissima, di lì riparti, cammina anche se stai dentro a una struttura cerca di, come dire, di non fare compromessi ma di vivere questa genuinità. I compromessi si fanno sulle cose apparenti, sulle strutture minime, su tante altre cose, ma non sulla interiorità di Dio, cioè dell’assoluto di Gesù Cristo, sull’umanità di Gesù Cristo. Questo ci porta alla scoperta dell’amore non nel senso di infatuazioni o di altro, di belle parole, ma di un amore che diventa trasfusione di spirito l’uno con l’altro: l’esperienza degli amici, l’esperienza della coppia indipendentemente da matrimonio o non matrimonio, cioè vivi queste cose fino in fondo nella libertà, ecco questo per me è il dono più grande di Giovanni.
Conferma questo debito anche il vescovo Nogaro:
Le conversazioni più impegnative riguardavano la sua passione per Cristo e il suo Vangelo. La sua franchezza di credente mi convinceva che il potere di Cristo è in esclusiva un potere di servizio, mai un potere teocratico e gerarchico. Accanto a lui mi vergognavo di essere vescovo. Giovanni Avena rimane per me il modello dell’uomo libero. Ritengo che la libertà sia il vertice delle qualità umane. Libero vuol dire che decideva lui, vuol dire che le motivazioni delle decisioni erano sue, vuol dire che non era condizionato dai cosiddetti superiori, da coloro che presumono di possedere “la grazia di stato”. Recentemente venni a conoscenza dell’intervista che Valerio Gigante gli fece sui suoi anni di prete a Palermo e sui fatti legati al suo impegno per liberare i ricoverati del manicomio ed ebbi conferma che la Chiesa l’aveva rifiutato perché Giovanni era un uomo libero.
Sono parole queste che confermano un passo del suo testamento che è il caso di ricordare in questo giorno, parole che ci restituiscono Giovanni come autentico maestro di testimonianza di fede e quindi di indomita libertà:
Ho creduto anche nella Chiesa come comunità di padri, madri, fratelli, sorelle, amici e avversari. Non ho più creduto, invece, nella Chiesa dal volto e dalle azioni istituzionali: questa non mi è stata madre, ma neppure matrigna. Fin da ragazzo le avevo dedicato i miei ideali e il mio entusiasmo giovanile, ma quando, adulto, ho voluto realizzare con la pochezza delle mie capacità intellettuali ma con la generosità della mia esistenza, per e con le con le persone incontrate nel mio servizio umano e spirituale, sono stato “prudentemente demotivato e pesantemente angariato” fino all’emarginazione e al ripudio. Penso ancora con dolore ai miei amici piccoli e adulti dell’Ospedale psichiatrico di Palermo, luogo di torture e sofferenze inaudite, dimenticati da tutti, Chiesa compresa, perché soggetti inutili alla società, e pericolosi per la convivenza civile. I miei superiori ecclesiastici mi impedirono, destituendomi dal servizio parrocchiale, di condividere con le donne e gli uomini del quartiere, la lotta per la dignità e i diritti umani, dei reclusi entro l’Ospedale psichiatrico. Il dolore di quella obbedienza mi ha trafitto e ha interrotto la mia comunione con i gestori istituzionali della Chiesa. Quella ferita non si è mai cicatrizzata e ancora sanguina. Per questo, alla mia morte, non voglio essere oggetto di alcuna pratica religiosa e funerale liturgico “somministrati e concessi” da una struttura di Chiesa ipocrita, povera di misericordia e ricca solo di potere e arroganza.
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