I cento giorni di Francesco e l’enigma della poltrona vuota
Il suo improvviso rifiuto di ascoltare la Nona Sinfonia di Beethoven offerta per l’Anno della fede è il suggello di un inizio di pontificato difficile da decifrare. Il successo mediatico di cui gode ha un motivo e un costo: il suo silenzio sulle questioni politiche cruciali dell’aborto, dell’eutanasia, del matrimonio omosessuale
di Sandro Magister (dal suo blog)
ROMA, 24 giugno 2013 – I primi cento giorni del pontificato di Francesco hanno indotto molti osservatori a tentarne un bilancio.
Ma è già in sé un elemento di valutazione anche l’immensa e durevole popolarità di cui gode Jorge Mario Bergoglio fin dal giorno della sua elezione a papa. Ad ogni sua uscita pubblica accorrono folle straripanti. In tutti i sondaggi d’opinione il plauso a questo papa tocca livelli altissimi, che si traducono anche in una risalita della fiducia nella Chiesa cattolica. E ciò che ancor più stupisce è la benevolenza con cui guarda a lui l’opinione pubblica laica, particolarmente aggressiva contro la Chiesa e il papa durante il pontificato di Benedetto XVI.
Papa Francesco non crede nelle misurazioni statistiche del successo. “La statistica la fa Dio”, ha detto in quello che è forse il discorso più rappresentativo della sua visione, tra quelli fin qui pronunciati: la mezz’ora di discorso a braccio del 17 giugno alle molte migliaia di fedeli della sua diocesi di Roma che gremivano l’aula delle udienze e il piazzale circostante:
> “Io non mi vergogno del Vangelo”
Ma nello stesso tempo egli vuole e sa essere popolare. A differenza di papa Karol Wojtyla, che era di straordinaria bravura nel rapportarsi alle masse, papa Bergoglio sa conquistare i singoli individui. Mentre fende le folle, egli non guarda all’insieme ma incrocia lo sguardo, il gesto, la parola con l’una o con l’altra persona che incontra sul percorso. E se ciò accade solo per pochi, tutti sanno che anche per loro potrebbe accadere lo stesso. Papa Francesco ha la capacità di farsi prossimo a ciascuno.
Più ancora, è popolare la sua predicazione. Fatta di poche verità elementari, che ricorrono incessantemente sulla sua bocca e in definitiva si riassumono – come ha fatto nel citato discorso del 17 giugno – in un consolante “tutto è grazia”: la grazia di Cristo che incessantemente perdona pur continuando tutti ad essere peccatori, e con ciò realizza “la più grande rivoluzione nella storia dell’umanità”.
La predicazione di papa Francesco è originale nella forma, dove sul testo scritto prevale di gran lunga l’eloquio spontaneo. Ma ciò che appare frutto di improvvisazione è in realtà accuratamente studiato, come si è intuito fin dalla sua prima apparizione sulla loggia della basilica di San Pietro, la sera dell’elezione a papa.
I contenuti dei suoi discorsi, così come i suoi gesti, sono tutti ponderati, anche nei silenzi e nelle omissioni. E forse sta proprio in ciò che dice e in ciò che tace la ragione del favore di cui Francesco gode anche “in partibus infidelium”, cioè sui media e nell’opinione pubblica laica.
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Anzitutto, l’invocazione di una Chiesa “povera e per i poveri” – che è diventata quasi la carta d’identità di Francesco ed è avvalorata dalla semplicità della sua vita quotidiana – è di quelle che tutti sono portati inevitabilmente ad apprezzare, sia pure per le ragioni più diverse.
Impossibili da contestare sono anche le frequenti invettive del papa contro i potentati della finanza mondiale. Fino a quando saranno evocati in forma generica e vaga, nessuno di questi veri o presunti “poteri forti” si sentirà effettivamente colpito e provocato a reagire.
Poi ci sono le insistite reprimende di Francesco contro le ambizioni di carriera e la brama di ricchezza – se non addirittura la corruzione – presenti in campo ecclesiastico.
L’ultima di queste reprimende è di pochi giorni fa. Ricevendo il 21 giugno i nunzi e i delegati pontifici, papa Bergoglio li ha ammoniti a svolgere col massimo rigore una loro incombenza chiave, la selezione dei candidati a vescovo:
“Nel delicato compito di realizzare l’indagine per le nomine episcopali siate attenti che i candidati siano pastori vicini alla gente. Questo è il primo criterio: pastori vicini alla gente. [Se] è un gran teologo, una grande testa, che vada all’università, dove farà tanto bene! Pastori! Ne abbiamo bisogno! Che siano padri e fratelli; che siano miti, pazienti e misericordiosi; che amino la povertà, interiore come libertà per il Signore e anche esteriore come semplicità e austerità di vita; che non abbiano una psicologia da ‘prìncipi’. Siate attenti che non siano ambiziosi, che non ricerchino l’episcopato. Si dice che in una prima udienza che il beato Giovanni Paolo II aveva avuto con il cardinale prefetto della congregazione dei vescovi, questi gli ha fatto la domanda sul criterio di scelta dei candidati all’episcopato. E il papa con la sua voce particolare: ‘Il primo criterio: volentes nolumus’. Quelli che ricercano l’episcopato… no, non va. E che siano sposi di una Chiesa senza essere in costante ricerca di un’altra”.
Il papa ha poi proseguito tratteggiando in positivo il ritratto del vescovo ideale, con esortazioni che aveva rivolto anche ai vescovi italiani da lui incontrati per la prima volta lo scorso 23 maggio:
“I pastori sappiano essere davanti al gregge per indicare la strada, in mezzo al gregge per mantenerlo unito, dietro al gregge per evitare che qualcuno rimanga indietro e perché lo stesso gregge ha, per così dire, il fiuto nel trovare la strada”.
Ebbene, anche qui viene del tutto naturale che papa Francesco riscuota un generale consenso, accresciuto dal suo profilo personale visibilmente alieno dall’oggetto di queste sue denunce, come pure dalla sua dichiarata volontà di procedere a una più esigente selezione dei nuovi vescovi e a una riforma della curia romana.
Anzi, il consenso che a questo riguardo avvolge il papa è tanto ampio da zittire gli stessi “imputati”. La curia è muta, nessun vescovo protesta. Bergoglio non ha detto come e chi vuole colpire. In Vaticano, le due realtà più in allarme sono le sole alle quali egli ha finora alluso specificamente: la “lobby gay” e l’Istituto per le Opere di Religione, IOR, dove per di più egli ha già provveduto a piazzare il 15 giugno un suo “prelato” dotato di pieni poteri, monsignor Battista Ricca.
Il quale gode della fiducia del papa proprio per la fama di incorruttibile che si è guadagnato quando prestava servizio nella seconda sezione della segreteria di Stato, severo con i nunzi spendaccioni e vanagloriosi, oltre che scriteriati nel selezionare i nuovi vescovi.
Uno di questi nunzi particolarmente invisi allo stesso Bergoglio è l’arcivescovo Adriano Bernardini, ambasciatore vaticano in Argentina dal 2003 al 2011. Papa Francesco ha finora evitato di incontrarlo, nonostante Bernardini sia oggi nunzio in Italia.
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L’elemento che però spiega più di ogni altro la benevolenza dell’opinione pubblica laica mondiale per papa Francesco è il suo silenzio in campo politico, specie sui terreni minati che maggiormente vedono contrapposta la Chiesa cattolica alla cultura dominante.
Aborto, eutanasia, matrimonio omosessuale sono parole che la predicazione di Francesco ha sinora deliberatamente evitato di pronunciare.
Il 16 giugno, nella giornata di celebrazione della “Evangelium vitae”, la vigorosa enciclica di Giovanni Paolo II contro l’aborto e l’eutanasia, papa Bergoglio ha sì parlato, ma con frasi di una brevità e di una genericità disarmanti, se raffrontate alla formidabile battaglia su scala mondiale combattuta da papa Karol Wojtyla in quell’anno 1995 e nell’anno precedente, con epicentro nella conferenza su popolazione e sviluppo indetta dalle Nazioni Unite al Cairo.
Giovanni Paolo II e dopo di lui Benedetto XVI hanno speso energie immense per contrastare la sfida epocale rappresentata dall’odierna ideologia del nascere e del morire, come pure dalla dissoluzione della dualità creaturale tra maschio e femmina.
A quest’ultima questione papa Joseph Ratzinger ha dedicato l’ultimo grande suo discorso alla curia, alla vigilia dello scorso Natale.
Ed entrambi quei papi si sono sentiti ancor più in dovere di fare da guida e di “confermare la fede” ai cattolici su questi temi cruciali proprio perché consapevoli del disorientamento di tanti fedeli e della fiacchezza di tante conferenze episcopali nazionali, con le poche eccezioni dell’italiana, con presidenti i cardinali Camillo Ruini e Angelo Bagnasco, dell’americana, con presidenti i cardinali Francis George e Timothy Dolan, e da ultimo della francese, con presidente il cardinale André Vingt-Trois.
Il recente caso francese, con la straordinaria reazione di intellettuali e di popolo, cattolico e non, all’avvenuta legittimazione dei matrimoni omosessuali, era quello su cui papa Francesco era più atteso al varco.
Ma egli non ha detto una sola parola di sostegno all’azione della Chiesa di Francia, nemmeno quando il 15 giugno ha ricevuto in Vaticano i parlamentari del “Gruppo di amicizia Francia-Santa Sede”.
Si può prevedere che Francesco si atterrà anche in futuro a questo suo riserbo sulle questioni che investono la sfera politica. Un riserbo che imbavaglierà anche la segreteria di Stato. È convinzione del papa che tali interventi competano ai vescovi di ciascuna nazione. Agli italiani l’ha detto con parole inequivocabili: “Il dialogo con le istituzioni politiche è cosa vostra”.
C’è molto di rischioso in questa delega, dato il giudizio pessimistico che Bergoglio ha sulla qualità media dei vescovi del mondo. I quali sono a loro volta tentati di delegare le decisioni a laici anch’essi di insicuro orientamento, rinunciando al ruolo di guida che compete a chi è segnato dal carattere episcopale.
Ma è un rischio che Francesco non teme di affrontare, convinto com’è – l’ha detto – che se il vescovo è incerto nel cammino, “lo stesso gregge ha il fiuto nel trovare la strada”.
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C’è infine un altro silenzio che ha caratterizzato i primi cento giorni di papa Francesco.
È il silenzio sul Concilio Vaticano II, da lui fin qui citato solo raramente e marginalmente. Quando invece per Benedetto XVI è stato un elemento centrale fino all’ultimo: basti pensare allo straordinario racconto che ne ha fatto ai parroci di Roma pochi giorni prima della sua rinuncia al pontificato.
Il miracolo, anche qui, è che si sono quasi zittite le controversie intraecclesiali sull’interpretazione e l’applicazione del Vaticano II, che con papa Ratzinger si erano particolarmente infiammate.
Con papa Francesco, lo scisma lefebvriano è entrato in sonno e una sua ricomposizione appare molto lontana.
Mentre viceversa cantano le lodi del nuovo papa i fautori di una democratizzazione della Chiesa.
Ma se si confrontano i primi cento giorni di papa Francesco col progressista “programma dei primi cento giorni” consegnato da Giuseppe Dossetti, Giuseppe Alberigo e Alberto Melloni ai cardinali dei due conclavi del 1978 e ristampato in occasione dei conclavi del 2005 e del 2013, si scoprirà che l’attuale papa assomiglia, piuttosto, a un generale della Compagnia di Gesù. D’antico stampo.
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POST SCRIPTUM – Esattamente allo scoccare del suo centesimo giorno da papa, il 22 giugno, Francesco ha compiuto un gesto che ha lasciato interdetti, questa volta, anche alcuni dei suoi più convinti sostenitori.
Per un’imprecisata “incombenza urgente e improrogabile” – fatta annunciare solo all’ultimo minuto e dopo averne tenuto all’oscuro anche “L’Osservatore Romano” stampato nelle stesse ore – ha lasciata vuota la sua poltrona al centro dell’aula delle udienze, dove stava per essergli offerto, nell’occasione dell’Anno della fede, l’ascolto della Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven, poi effettivamente eseguita in sua assenza.
“Non sono un principe rinascimentale che ascolta musica invece di lavorare”: questa è la frase che gli è stata messa in bocca da alcuni “papisti” di curia, inconsapevoli di recargli con ciò solo danno.
Per lo storico della Chiesa Alberto Melloni il gesto ha la grandezza di “un rintocco solenne, severo”, che conferma lo stile innovativo di Francesco.
Ma in realtà, esso ha reso ancor più indecifrabile l’inizio di questo pontificato.
Lo slancio evangelizzatore di papa Francesco, il suo voler raggiungere le “periferie esistenziali” dell’umanità, avrebbe infatti un veicolo di straordinaria efficacia proprio nel grande linguaggio musicale.
Nella Nona di Beethoven questo linguaggio raggiunge vette sublimi, si fa comprensibile al di là di ogni confine di fede, diventa un “Cortile dei Gentili” di incomparabile suggestione.
All’ascolto pubblico di ogni concerto, Benedetto XVI faceva seguire sue riflessioni che toccavano nel profondo le menti e i cuori.
Un anno fa, dopo aver ascoltato nel teatro alla Scala di Milano proprio la Nona Sinfonia di Beethoven, papa Joseph Ratzinger aveva così concluso:
“Dopo questo concerto molti andranno all’adorazione eucaristica, al Dio che si è messo nelle nostre sofferenze e continua a farlo. Al Dio che soffre con noi e per noi e così ha reso gli uomini e le donne capaci di condividere la sofferenza dell’altro e di trasformarla in amore. Proprio a ciò ci sentiamo chiamati da questo concerto”.
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