Sentenza Ruby: non doveva esserci
Le sentenze giudiziarie – anche nella loro forma più sommaria – non dovrebbero mai diventare ostaggio degli occhi e delle passioni politiche di chi le accoglie e le valuta. In Italia, da molti anni, sembra diventato inutile sperarlo. Ma noi non ci arrendiamo. Perché, nonostante storture e magagne, crediamo nella giustizia e vogliamo tornare a credere in una politica che, in molti modi, ci ha deluso e persino scandalizzato.
È netta la sentenza del tribunale milanese che ieri sera ha condannato in primo grado per pesanti reati – concussione per costrizione e prostituzione minorile – il senatore Berlusconi, all’epoca dei fatti capo del governo. Ed è durissima: 7 anni di carcere più l’interdizione perpetua dai pubblici uffici più, non si può ignorarlo, la segnalazione alla Procura di ben 32 testimoni che avrebbero dichiarato il falso per agevolare l’imputato eccellente. Gli altri volti principali della vicenda sono quello – fin troppo noto – della signorina El Marough in arte “Ruby” all’epoca dei fatti appunto minorenne, e quello – sconosciuto al grande pubblico – del funzionario di polizia che ricevette dal premier la telefonata con la quale si attribuiva alla ragazza uno status familiare («nipote di Mubarak») e una tutela (del consigliere regionale del Pdl, Nicole Minetti) inesistenti.
La sentenza è sferzante, troppo se si considerano alcuni crimini repellenti sanzionati con meno severità proprio in questi giorni. E ciò alimenta polemiche e sospetti. Ma qualcuno davvero pensa che se gli anni di carcere per il Cavaliere fossero stati la metà il giudizio avrebbe fatto meno rumore? Il gran problema – dell’Italia, non ancora di Berlusconi «presunto innocente» sino al terzo grado – è che la sentenza poteva essere sia meno aspra sia meno clamorosa. Anzi, non doveva esserci per niente. E non per impunità, ma per specchiato rigore. Quello a cui è tenuto chi rappresenta e governa un Paese.
Marco Tarquinio (Avvenire ,25 giugno 2013)
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