SU FRANCESCO
Quando il 13 marzo 2013 l’annuncio del cardinale Tauran dissipa timori fondati e nubi oscure sul Vaticano e sulla chiesa la commozione dilaga e, mentre il nuovo vescovo di Roma sorprende con il suo primo saluto, in molti pensano all’intervento dello Spirito Santo. Personalmente non credo che la scelta del papa sia opera dello Spirito: avrei molte difficoltà a riconoscerla nell’elezione di tanti pontefici, anche fra quelli beatificati. Chi si sente vicino alle posizioni del papa lo riconosce dono dello Spirito, chi lo sente più lontano si convince che lo Spirito non sia stato ascoltato.
Se il papa fosse espressione della volontà dello Spirito come si motiverebbero le votazioni e, prima, le discussioni, i confronti fra gli elettori e talvolta perfino la loro corruzione? Lascerei ai cardinali, poco riconoscibili come strumenti dello Spirito Santo, le loro responsabilità e credo invece dono dello Spirito il discernimento con cui, quando bene educato, riconosco quanto di evangelico nelle circostanze, nelle persone, nel papa mi aiuta a crescere. Il vangelo di Gesù, non sempre facile da interpretare, resta l’unica pietra di paragone accettabile per un cristiano. E credo sia dono dello Spirito mantenersi fedeli anche quando chi riveste ruoli di guida nel popolo del Signore ne oscura il volto.
Da questa premessa discende il mio rifiuto di tentazioni papolatriche, sia quando dal papa mi sento lontano, sia quando ne apprezzo la personalità e l’azione, come indubbiamente nel caso di Francesco. In presenza di manifestazioni di papolatria, molto frequenti, rivado con la mente al racconto riferito dagli Atti degli Apostoli: il sacerdote di un tempio pagano insieme alla folla, entusiasti dei prodigi realizzati dagli apostoli, voleva offrire sacrifici in onore di Paolo e Barnaba:
appena se ne accorsero gli apostoli si precipitarono verso il popolo, gridando: «Perché fate questo? Anche noi siamo uomini mortali, come voi! Siamo venuti solo a portarvi questo messaggio di salvezza» (Atti 14, 13-15).
E questa coerenza – una parola che ricorre spesso nel parlare di Francesco – con il comportamento degli apostoli, da cui scende la normalità, nel linguaggio e nello stile, tanto sostenuta dal papa dal «buona sera» con cui si è presentato, ai pantaloni – ma non stiamo davvero folleggiando quando ci mettiamo a scrivere dei pantaloni del papa? Il primo nella storia, pensate, che porta i pantaloni neri -, alla borsa, al rifiuto di certi paramenti mi pare un carattere molto interessante del suo stile. Non mi pare sia questione di simpatia o antipatia, ma di riconoscere la fedeltà al vangelo: certo la simpatia favorisce i rapporti e oggi per Primo Mazzolari sarebbe forse più facile dichiarare «Anch’io voglio bene al Papa».
Non intendo ora analizzare singoli documenti, neppure fra quelli che hanno suscitato maggior stupore e mi sono parsi più convincenti – dalla Evangelii gaudium al discorso ai movimenti popolari alla denuncia delle malattie della curia -: mi limito a qualche considerazione più generale, non generica. Di fronte alla figura di Francesco leggo di entusiasmi, consensi anche da chi ritiene i suoi interventi troppo prudenti, perplessità, rifiuti. Troppo raramente mi pare si ragioni in termini di confronto con il vangelo: sta aiutando a ritrovare il Cristo o ne allontana? Questo è l’unico nodo.
Vittorio Messori nell’articolo pubblicato dal Corriere della sera alla vigilia di Natale, dichiaratamente espressione non solo del suo autore, sostiene che Francesco turba «la tranquillità del cattolico medio, abituato a fare a meno di pensare in proprio, quanto a fede e costumi, ed esortato a limitarsi a seguire il Papa». Due affermazioni di grande rilievo, ammesso che sia definibile e riconoscibile un cattolico medio: la prima è una connotazione negativa del turbamento della tranquillità; la seconda la connotazione sostanzialmente positiva di chi si limita a seguire il papa. A me pare che il vangelo sia una buona notizia che non lascia tranquilli e quindi ben venga chi ce lo ricorda e i seguaci di Cristo mi pare siano di continuo invitati a esercitare lo spirito critico, a pensare e a seguire Cristo e nessun altro, come Gesù stesso più volte ammonisce: tu seguimi!
Per cui mi pare un esito positivo di Francesco anche aver di fatto sostenuto che il papa è discutibile, come viceversa viene negato da chi fa scudo del pensiero del papa alle proprie posizioni. Così osserviamo, con qualche soddisfazione e molto sconcerto, che oggi discute il papa chi fino a ieri ne negava la discutibilità. E ritorniamo alla coerenza tanto cara al vescovo di Roma: titolo che, ripetiamolo, non è una bizzarria di Bergoglio, ma il fondamento giuridico, secondo la dottrina tradizionale, del suo ministero.
Vivendo la vita del cattolicesimo italiano anche in ambienti diversi in questi venti mesi del pontificato di Francesco mi pare di cogliere essenzialmente due filoni di opposizione: il primo, di cui non intendo parlare, è l’opposizione di chi vede smantellare posizioni di potere, privilegi, fonti di arricchimento in odore di mafia; il secondo osserva invece sinceramente e magari con qualche sgomento l’abbandono di manifestazioni di potenza, del trionfalismo liturgico, di certezze dottrinali che tolgono inquietudine e però accettano l’ingiustizia; magari un invito alla fede in un Dio meno potente e più prossimo, un Dio che chiede conversione piuttosto che culto, partecipazione e rimozione dell’indifferenza, attenzione ai poveri.
Sono comprensibili queste perplessità: sono comprensibili vuoi perché le richieste sono davvero impegnative; vuoi perché da troppo tempo di fatto si è insegnato il contrario e al cattolico medio si è chiesto culto e qualche offerta, tollerando o addirittura favorendo comportamenti indifferenti quando non omertosi. Mi permetto quindi di invitare a una riflessione impegnativa: quelli che riteniamo i fondamenti della pratica cattolica sono evangelici o ecclesiastici? Proviamoci, uno per uno. E forse ci accorgiamo che per quasi tutti il vangelo è molto, molto mediato dalla storia della chiesa: forse Francesco vuole proprio che la chiesa non imponga la propria storia, ma si faccia servizio del vangelo, come ha detto espressamente della curia romana. Ancora con troppa esitazione, afferma qualcuno.
Naturalmente non so fino a dove intenda spingersi, ma nella chiesa la formazione dei fedeli è quella a cui ho accennato, mentre la convivenza di diverse spiritualità esige un rispetto che può motivare posizioni contraddittorie. È bello sognare un po’ con il vangelo, ma ora occorre realismo. Anche pontefici immaginari come Celestino VI di Adriana Zarri o Francesco I di Paolo Farinella o i meno recenti Cirillo (Nei panni di Pietro di Morris West) o Pietro II (Mysterium iniquitatis di Sergio Quinzio) e altri letterari o cinematografici offrono spunti di riflessione, ma restano, almeno al presente, del tutto inverosimili sia nel coraggio delle scelte sia nelle tragedie che li travolgono.
Torno a quella che per me resta la domanda essenziale: ciascuno di noi come si rapporta al vangelo in cui diciamo di credere? Forse discutere il papa è più semplice, e magari gratificante, che mettersi in discussione se stessi. Gesù lo vediamo in Vaticano o a Lampedusa? Con Scalfari e Pannella o con i sacerdoti del tempio? Fare in memoria di Lui vorrà dire recitare il Credo e celebrare il culto fra canti e incensi o mettersi il grembiule e cercare di fare la giustizia? Domande non retoriche la cui risposta comporta cambiamenti per i quali vacilla il coraggio. Francesco ha imboccato una strada: occorre fermarlo, come gridano molti oppure convertirsi come ritengono doveroso, pur se ben difficile, molti altri. Certo vengono ridotti gli spazi per l’indifferenza, deprecata e praticata, il peccato più diffuso secondo il papa.
Chiediamoci però anche, per concludere, quale immagine di chiesa, quale testimonianza siano disponibili a dare quelli – spero tutti noi – che si dichiarano dalla parte di Francesco, e forse addirittura pensano ancora che sia troppo prudente. Al di là dei compiacimenti e delle polemiche, che cosa cambia nelle parrocchie, nei gruppi, nella vita dei singoli in famiglia o nella professione, nelle scelte politiche, nei rapporti con gli altri, nelle valutazioni della realtà? La solidarietà a Francesco, l’adesione alla sua visione di chiesa è il farci carico delle responsabilità a cui ci richiama, è dare corso al compito assegnato a ciascuno, come sostiene Luigi Ciotti perché «il Papa non permetterà che il consenso suscitato dai suoi gesti e scelte resti un fatto emotivo o, peggio, ipocrita, senza tradursi in un impegno e una responsabilità collettivi nella costruzione del bene comune» (la Repubblica, 3 gennaio 2015).
Ugo Basso
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