Madre Teresa e il coraggio del dolore
di Enzo Bianchi – la Repubblica 4 settembre 2016
Narra san Bonaventura nella Legenda major che Francesco d’Assisi verso la fine della sua vita,
acclamato come santo al suo passare di città in città, avrebbe detto: «Potrei ancora avere figli e
figlie: non lodatemi come se fossi già sicuro! Non si deve lodare nessuno, quando non si sa come
andrà a finire». Sì, nella chiesa, fin dai tempi apostolici, ci sono sempre state persone riconosciute e
acclamate come santi dai loro contemporanei, prima ancora della morte, per la loro vita conforme a
quella di Gesù o per il loro messaggio ritenuto ispirato da Dio. Per altri l’invocazione “santo
subito!” è risuonata già durante le esequie; per altri invece ci sono voluti secoli prima che la chiesa
di Roma riconoscesse la loro testimonianza come esemplare per la vita cristiana e le loro parole
coerenti con la dottrina cattolica: soprattutto questo è accaduto per quanti durante la loro vita
avevano conosciuto diffidenze, ostracismi, persecuzioni e perfino condanne da parte dell’autorità
ecclesiastica. Basti pensare a quelli che sono chiamati “profeti” dopo essere stati silenziati,
censurati, calunniati e a volte uccisi per quello che dicevano e facevano.
Madre Teresa di Calcutta ha ottenuto innumerevoli riconoscimenti pubblici — sia nella chiesa che
nella società mondiale — durante la sua lunga vita, in particolare negli ultimi due decenni, e la sua
popolarità, capace di superare confini di ogni tipo, è stata ampliata dall’epoca storica in cui ha
vissuto: una stagione in cui l’impatto anche emotivo di alcune figure e delle loro opere è stato
enfatizzato dall’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa. Si pensi emblematicamente
all’evento della morte di madre Teresa, sopraggiunto solo una settimana dopo la tragica morte di
Lady Diana, la principessa che aveva sostenuto con convinzione e dovizia di mezzi anche l’opera
caritativa delle Missionarie della Carità, la congregazione fondata dalla religiosa albanese.
Eppure credo che la vera madre Teresa non possa dire di averla conosciuta in profondità nessuno
dei potenti che l’hanno incontrata, nessuno dei giornalisti curiosi di tutto il mondo che l’hanno
intervistata, nessuno degli uomini di chiesa con i quali appariva in tante manifestazioni, nessuno di
noi che l’abbiamo ammirata come una grande figura della carità cristiana. Chi l’ha conosciuta nella
sua dimensione umana, spirituale cristiana più autentica forse non sono state nemmeno le sue prime
consorelle, che pure avevano colto in quella piccola donna tenace un’eco schietta del vangelo.
Credo che chi ha potuto scorgere il volto autentico di madre Teresa sono stati i più poveri tra i
poveri, i derelitti senza dignità, quegli esseri umani abbandonati e considerati morti già prima che
esalassero l’ultimo respiro. Sono loro ad aver colto nei suoi occhi uno sguardo carico di
misericordia, ad aver avvertito nelle sue mani rudi la carezza che non guariva le piaghe ma sanava il
cuore ferito, ad aver ascoltato in un sussurro di voce la parola di vita che non viene meno. Perché
madre Teresa ha sempre e solo fatto questo: chinarsi su chi giaceva nel più dimenticato angolo delle
strade per toglierlo dalla solitudine disperante e per “rialzarlo”, anche solo per quell’attimo
sufficiente a morire nella ritrovata dignità di essere umano creato a immagine e somiglianza di Dio.
Sono state molte le critiche rivolte a madre Teresa in questi ultimi decenni: alcune ingiuste e solo
sprezzanti, altre da parte di chi non condivideva la sua visione “doloristica” dell’esistenza”, la sua
rassegnazione di fronte alla malattia e alla miseria, la sua giustificazione del dolore ritenuto
provvidenziale oltre che purificatore e redentivo. In questo madre Teresa è debitrice di una
spiritualità dominante che oggi molti cristiani, che conoscono nuove letture antropologiche, non
riescono più a condividere. Nessuno però può negare che madre Teresa ha saputo vedere i
sofferenti, avvicinare chi era nella miseria, abbracciare chi era ritenuto senza dignità e perciò
scartato.
Nel 1980 a Calcutta ho visitato uno di questi “luoghi” da lei predisposti dove erano raccolti
malati e morenti… È vero, madre Teresa non aveva pensato a un ospedale — a differenza di padre
Pio da Pietrelcina con la sua “Casa della sofferenza” — ma come si sarebbe potuto pensare ad altro
in quella città straripante non di poveri ma di miseri disprezzati?
Chi di noi ha un minimo di empatia con la sofferenza dell’altro — sia essa del corpo, della mente o
dello spirito — sa che solo può capirne qualcosa chi accetta di condividerla, di farla propria, di
“restare accanto” anche e soprattutto quando più nulla può essere fatto o detto. Credo che madre
Teresa abbia insegnato alla chiesa e ancor più alla società, alla nostra società stordita dal benessere
raggiunto o agognato, che ciò che conta è restituire umanità a ogni essere umano, avvicinarsi
concretamente e restare vicino a chi è nel bisogno, ricollocarlo nel posto che gli spetta di nostro
fratello o sorella, ripetergli con i gesti prima ancora che con le parole che la sua vita è preziosa per
noi e che la sua morte è per noi motivo di dolore sì, ma anche di lezione e insegnamento e può
divenire persino occasione di consolazione se vissuta in un abbraccio compassionevole. Madre
Teresa è un memoriale, un antidoto contro la carità cristiana presbite, quella che vuole aiutare chi è
nel bisogno restando a distanza, senza incontrarlo, senza un abbraccio, senza la mano nella mano
dell’altro.
Senza spirito di contraddizione, sento doveroso ricordare che quello che ha fatto questa donna in
India e che è diventato straordinario fino a meritare le luci della ribalta internazionale, lo realizzano
tante persone ogni giorno, anche qui in mezzo a noi, senza che noi ce ne accorgiamo. Basterebbe
visitare una “Casa della Divina Provvidenza”, un Cottolengo, per vedere che molte suore,
silenziosamente, senza nessun riconoscimento, lo facevano prima di madre Teresa e lo fanno anche
oggi, piegandosi su corpi di uomini e donne che a volte di umano non hanno più né la forma né la
ragione.
Oggi madre Teresa sarà canonizzata, sarà cioè affermato dalla chiesa cattolica che la sua vita, il suo
modo di dare carne al vangelo è testimonianza credibile di quel Gesù, uomo e Dio, che è passato
facendo il bene, al punto da vivere ora in una comunione più forte della morte. Se l’esistenza
terrena di questa “piccola grande donna” non è stata altro che un’incarnazione di questo amore più
forte dell’odio che conferisce dignità a ogni persona, non si può dimenticare quanto affermato da
papa Francesco: «Non c’è un santo che nel suo passato non abbia commesso peccati ed errori, e non
c’è un peccatore che nel suo futuro non possa divenire santo».
Lascia un commento