LA VERA DIMENSIONE DELLA MISERICORDIA DI DIO
Intervista con il cardinale Gerhard Ludwig Müller
D. – Il problema dei divorziati risposati è stato riproposto ultimamente all’attenzione dell’opinione pubblica. Partendo da una certa interpretazione della Scrittura, della tradizione patristica e dei testi del magistero, sono state suggerite soluzioni che propongono innovazioni. Ci si può attendere un mutamento dottrinale?
R. – Nemmeno un concilio ecumenico può mutare la dottrina della Chiesa, perché il suo fondatore, Gesù Cristo, ha affidato la custodia fedele dei suoi insegnamenti e della sua dottrina agli apostoli e ai suoi successori. Abbiamo sul matrimonio una dottrina elaborata e strutturata, basata sulla parola di Gesù, che occorre offrire nella sua integrità. L’assoluta indissolubilità di un matrimonio valido non è una mera dottrina, bensì un dogma divino e definito dalla Chiesa. Di fronte alla rottura di fatto di una matrimonio valido, non è ammissibile un altro “matrimonio” civile. In caso contrario, saremmo di fronte a una contraddizione, perché se la precedente unione, il “primo” matrimonio o, meglio, il matrimonio, è realmente un matrimonio, un’altra unione successiva non è “matrimonio”. È solo un gioco di parole parlare di primo e di secondo “matrimonio”. Il secondo matrimonio è possibile solamente quando il legittimo coniuge è morto, oppure quando il matrimonio è stato dichiarato invalido, perché in questi casi il vincolo precedente si è dissolto. In caso contrario ci troviamo di fronte a ciò che è definito “impedimento di vincolo”.
A questo proposito, desidero sottolineare che l’allora cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della congregazione che ora io presiedo, con l’approvazione dell’allora papa san Giovanni Paolo II, dovette intervenire espressamente per respingere un’ipotesi simile a quella della sua domanda.
Ciò non impedisce di parlare del problema della validità di tanti matrimoni nell’attuale contesto secolarizzato. Tutti abbiamo assistito a nozze in cui non si sapeva bene se i contraenti del matrimonio erano realmente intenzionati a “fare ciò che fa la Chiesa” nel rito del matrimonio. Benedetto XVI ha fatto insistenti richiami a riflettere sulla grande sfida rappresentata dai battezzati non credenti. Di conseguenza, la congregazione per la dottrina della fede ha raccolto la preoccupazione del papa, mettendo al lavoro un buon numero di teologi e di altri collaboratori per risolvere il problema della relazione tra fede esplicita e implicita.
Che cosa avviene quando un matrimonio è carente perfino della fede implicita? Certamente quando essa manca, sebbene sia stato celebrato “libere et recte”, il matrimonio potrebbe risultare invalido. Ciò induce a ritenere che, oltre ai criteri classici per dichiarare l’invalidità del matrimonio, ci sia da riflettere di più sul caso in cui i coniugi escludano la sacramentalità del matrimonio. Attualmente ci troviamo ancora in una fase di studio, di riflessione serena ma tenace su questo punto. Non ritengo opportuno anticipare conclusioni precipitate, dal momento che non abbiamo ancora trovato la soluzione, ma ciò non mi impedisce di segnalare che nella nostra congregazione stiamo dedicando molte energie per dare una risposta corretta al problema posto dalla fede implicita dei contraenti.
D. – Perciò se il soggetto escludesse la sacramentalità del matrimonio, allo stesso modo di chi, al momento di sposarsi, escludesse per esempio i figli, quel fatto potrebbe rendere nullo il matrimonio che è stato contratto?
R. – La fede appartiene all’essenza del sacramento. Certo, occorre chiarire la questione giuridica posta dall’invalidità del sacramento a causa di una evidente mancanza di fede. Un celebre canonista, Eugenio Corecco, diceva che il problema sorge quando occorre concretare il grado di fede necessaria perché possa realizzarsi la sacramentalità. La dottrina classica aveva ammesso una posizione minimalista, esigendo una semplice intenzione implicita: “Fare ciò che fa la Chiesa”. Corecco aggiunse che nel mondo attuale globalizzato, multiculturale e secolarizzato, in cui la fede non è un dato che si possa semplicemente presupporre, si rende necessario esigere dai contraenti una fede più esplicita, se davvero vogliamo salvare il matrimonio cristiano.
Insisto nuovamente a ripetere che tale questione è ancora in fase di studio. Stabilire un criterio valido e universale al riguardo non è davvero una questione futile. In primo luogo perché le persone sono in costante evoluzione, sia per le conoscenze che via via acquisiscono col passare degli anni, sia per la loro vita di fede. Il tirocinio e la fede non sono dati statistici! Talvolta, al momento di contrarre il matrimonio una certa persona non era credente; ma è anche possibile che nella sua vita sia intervenuto un processo di conversione, sperimentando così una “sanatio ex posteriori” di ciò che in quel momento era un grave difetto di consenso.
Desidero ripetere in ogni caso che, quando ci troviamo in presenza di un matrimonio valido, in nessun modo è possibile sciogliere quel vincolo: né il papa né alcun altro vescovo hanno autorità per farlo, perché si tratta di realtà che appartiene a Dio, non a loro.
D. – Si parla della possibilità di consentire ai coniugi di “rifarsi una vita”. È stato anche detto che l’amore tra coniugi cristiani può “morire”. Può davvero un cristiano impiegare questa formula? È possibile che muoia l’amore tra due persone unite dal sacramento del matrimonio?
R. – Queste teorie sono radicalmente errate. Non si può dichiarare estinto un matrimonio col pretesto che l’amore tra i coniugi è “morto”. L’indissolubilità matrimoniale non dipende dai sentimenti umani, permanenti o transitori. Questa proprietà del matrimonio è voluta da Dio stesso. Il Signore si è implicato nel matrimonio tra l’uomo e la donna, per cui il vincolo esiste e ha origine in Dio. Questa è la differenza.
Nella sua intima realtà soprannaturale, il matrimonio include tre beni: il bene della reciproca fedeltà personale ed esclusiva (il “bonum fidei”); il bene dell’accoglienza dei figli e della loro educazione alla conoscenza di Dio (il “bonum prolis”) e il bene dell’indissolubilità o indistruttibilità del vincolo, che ha per fondamento permanente l’unione indissolubile tra Cristo e la Chiesa, sacramentalmente rappresentata dalla coppia (il “bonum sacramenti”). Perciò, anche se è possibile sospendere la comunione fisica di vita e di amore, la cosiddetta “separazione di mensa e di letto”, per il cristiano non è lecito contrarre un nuovo matrimonio finché vive il primo coniuge, perché il vincolo legittimamente contratto è perpetuo. Il vincolo matrimoniale indissolubile corrisponde in qualche modo al carattere (“res et sacramentum”) impresso dal battesimo, dalla confermazione, dal sacramento dell’ordine.
D. – A questo proposito si parla anche molto della importanza della “misericordia”. Si può interpretare la misericordia come un “fare eccezioni” alla legge morale?
R. – Se apriamo il Vangelo, troviamo che anche Gesù, in dialogo coi farisei a proposito del divorzio, allude al binomio “divorzio” e “misericordia” (cfr Mt 19, 3-12). Accusa i farisei di non essere misericordiosi, dato che secondo la loro subdola interpretazione della Legge avevano concluso che Mosè avrebbe concesso un presunto permesso di ripudiare le loro mogli. Gesù ricorda loro che la misericordia di Dio esiste contro la nostra debolezza umana. Dio ci dona la sua grazia perché possiamo essere fedeli.
Questa è la vera dimensione della misericordia di Dio. Dio perdona anche un peccato tanto grave come l’adulterio; tuttavia non permette un altro matrimonio che metterebbe in dubbio un matrimonio sacramentale già in essere, matrimonio che esprime la fedeltà di Dio. Fare un simile appello a una presunta misericordia assoluta di Dio, equivale a un gioco di parole che non aiuta a chiarire i termini del problema. In realtà, mi sembra che sia un modo per non percepire la profondità dell’autentica misericordia divina.
Assisto con un certo stupore all’impiego, da parte di alcuni teologi, dello stesso ragionamento sulla misericordia come pretesto per favorire l’ammissione ai sacramenti dei divorziati risposati civilmente. La premessa di partenza è che, dal momento che Gesù stesso ha preso le parti di coloro che soffrono, offrendo loro il suo amore misericordioso, la misericordia è il segnale speciale che caratterizza ogni autentica sequela. Ciò in parte è vero. Tuttavia, un errato riferimento alla misericordia comporta il grave rischio di banalizzare l’immagine di Dio, secondo cui Dio non sarebbe libero, bensì sarebbe obbligato a perdonare. Dio non si stanca mai di offrirci la sua misericordia: il problema è che noi ci stanchiamo di chiederla, riconoscendo con umiltà il nostro peccato, come ha ricordato con insistenza papa Francesco nel primo anno e mezzo del suo pontificato.
I dati della Scrittura rivelano che, oltre la misericordia, anche la santità e la giustizia appartengono al mistero di Dio. Se occultassimo questi attributi divini e si banalizzasse la realtà del peccato, non avrebbe alcun senso implorare per le persone la misericordia di Dio. Perciò si comprende che Gesù, dopo aver trattato la donna adultera con grande misericordia, abbia aggiunto come espressione del suo amore: “Va’ e da ora in poi non peccare più” (Gv 8, 11). La misericordia di Dio non è una dispensa dai comandamenti di Dio e dagli insegnamenti della Chiesa. È tutto il contrario: Dio, per infinita misericordia, ci concede la forza della grazia per un pieno adempimento dei sui comandi e così ristabilire in noi, dopo la caduta, la sua immagine perfetta di Padre del Cielo.
D. – Evidentemente si pone anche qui la relazione tra il sacramento dell’eucaristia e il sacramento del matrimonio. Come si può intendere la relazione tra i due sacramenti?
R. – La comunione eucaristica è espressione di una relazione personale e comunitaria con Gesù Cristo. A differenza dei nostri fratelli protestanti e in linea con la tradizione della Chiesa, per i cattolici essa esprime l’unione perfetta tra la cristologia e l’ecclesiologia. Pertanto, non posso avere una relazione personale con Cristo e col suo vero Corpo presente nel sacramento dell’altare e, allo stesso tempo, contraddire lo stesso Cristo nel suo Corpo mistico, presente nella Chiesa e nella comunione ecclesiale. Quindi possiamo affermare senza errore che se qualcuno si trova in situazione di peccato mortale, non può e non deve accostarsi alla comunione.
Ciò avviene sempre, non solamente nel caso dei divorziati risposati, bensì in tutti i casi in cui ci sia una rottura oggettiva con ciò che Dio vuole per noi. Questo è per definizione il vincolo che si stabilisce tra i vari sacramenti. Perciò bisogna stare ben attenti di fronte a una concezione immanentista del sacramento dell’eucaristia, ossia a una comprensione fondata su un individualismo estremo, che subordini alle proprie necessità o ai propri gusti la recezione dei sacramenti o la partecipazione alla comunione ecclesiale.
Per alcuni la chiave del problema è il desiderio di comunicarsi sacramentalmente, come se il semplice desiderio fosse un diritto. Per molti altri, la comunione è solamente una maniera di esprimere l’appartenenza a una comunità. Certamente, il sacramento dell’eucaristia non può essere concepito in modo riduttivo come espressione di un diritto o di una identità comunitaria: l’eucaristia non può essere un “social feeling”!
Spesso viene suggerito di lasciare alla coscienza personale dei divorziati risposati la decisione di accostarsi alla comunione eucaristica. Anche questo argomento esprime un problematico concetto di “coscienza”, già respinto dalla congregazione per la fede nel 1994. Prima di accostarsi a ricevere la comunione, i fedeli sanno di dover esaminare la loro coscienza, cosa che li obbliga anche a formarla di continuo e quindi a essere degli appassionati ricercatori della verità.
In questa dinamica tanto peculiare, l’obbedienza al magistero della Chiesa non è di peso, bensì di aiuto per scoprire la tanto anelata verità sul proprio bene e su quello degli altri.
D. – A questo punto emerge la grande sfida della relazione tra dottrina e vita. Si è detto che, senza toccare la dottrina, ora è necessario adattarla alla “realtà pastorale”. Questo adattamento supporrebbe che la dottrina e la prassi pastorale potrebbero seguire di fatto strade diverse.
R. – La scissione tra vita e dottrina è propria del dualismo gnostico. Come lo è separare la giustizia e la misericordia, Dio e Cristo, Cristo Maestro e Cristo Pastore, o separare Cristo dalla Chiesa. C’è un solo Cristo. Cristo è il garante dell’unità tra la Parola di Dio, la dottrina e la testimonianza con la propria vita. Ogni cristiano sa che solamente attraverso la sana dottrina possiamo conseguire la vita eterna.
Le teorie da lei accennate cercano di rendere la dottrina cattolica come una specie di museo delle teorie cristiane: una specie di riserva che interesserebbe solamente qualche specialista. La vita, da parte sua, non avrebbe nulla a che vedere con Gesù Cristo quale egli è, e come ce lo mostra la Chiesa. Il severo cristianesimo si starebbe convertendo in una nuova religione civile, politicamente corretta, ridotta ad alcuni valori tollerati dal resto della società. In tal modo, si otterrebbe l’obiettivo inconfessabile di alcuni: accantonare la Parola di Dio per poter dirigere ideologicamente l’intera società.
Gesù non si è incarnato per esporre alcune semplici teorie che tranquillizzino la coscienza e in fondo lascino le cose come stanno. Il messaggio di Gesù è una vita nuova. Se qualcuno ragionasse e vivesse separando la vita dalla dottrina, non solamente deformerebbe la dottrina della Chiesa trasformandola in una specie di pseudofilosofia idealista, bensì ingannerebbe se stesso. Vivere da cristiano comporta vivere a partire dalla fede in Dio. Adulterare questo schema significa realizzare il temuto compromesso tra Dio e il demonio.
D. – Per difendere la possibilità che un coniuge possa “rifarsi una vita” con un secondo matrimonio essendo ancora in vita il primo coniuge, si è fatto ricorso ad alcune testimonianze dei Padri della Chiesa che sembrerebbero propendere per una certa condiscendenza verso queste nuove unioni.
R. – È certo che nell’insieme della patristica si possono trovare diverse interpretazioni o adattamenti alla vita concreta, tuttavia non c’è alcuna testimonianza dei Padri orientata ad accettare pacificamente un secondo matrimonio quando il primo coniuge è ancora in vita.
Certamente, nell’Oriente cristiano è avvenuta una certa confusione tra la legislazione civile dell’imperatore e le leggi della Chiesa, che ha prodotto una diversa pratica che in certi casi è arrivata ad ammettere il divorzio. Ma, sotto la guida del papa, la Chiesa cattolica ha sviluppato nel corso dei secoli un’altra tradizione, accolta nell’attuale codice di diritto canonico e nel resto della normativa ecclesiastica, chiaramente contraria a qualunque tentativo di secolarizzare il matrimonio. La stessa cosa è accaduta in vari ambienti cristiani dell’Oriente.
Talvolta ho scoperto come si isolano e si decontestualizzano alcune citazioni puntuali dei Padri, per sostenere in questo modo la possibilità di un divorzio e di un secondo matrimonio. Non credo che sia corretto dal punto di vista metodologico isolare un testo, toglierlo dal contesto, trasformarlo in una citazione isolata, sganciarlo dal quadro complessivo della tradizione. Tutta la tradizione teologica e magisteriale deve essere interpretata alla luce del Vangelo e in riferimento al matrimonio troviamo alcune parole assolutamente chiare di Gesù stesso. Non credo possibile un’interpretazione diversa da ciò che è stato segnalato finora dalla tradizione e dal magistero della Chiesa senza risultare infedeli alla Parola rivelata.
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Il libro:
Gerhard Ludwig Müller, “La speranza della famiglia”, Ares, Milano, 2014, pp. 80, euro 9,50.
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