Newsletter n. 62 del 19 gennaio 2018 Cari Amici, la cosa più brutta è stato il decreto con cui si sono rifinanziate tutte le missioni militari italiane di “difesa avanzata” e si è dato il viatico all’esercito che torna in Africa in assetto di guerra, da colono. Poiché la bugia fa coppia fissa non con la politica, ma con la governabilità, cioè con la pretesa del potere di governare senza regole e senza Costituzione, il capo del governo ha detto che è una missione “no combat”, non per combattere; sarebbe con le buone che si respingerebbero le carovane dei profughi nel deserto verso i loro inferni, per non far loro passare i confini d’Europa, avanzati anche quelli fino al Sahel. Ma appunto è un bugia; ha avuto la lucidità di darne notizia la Repubblica, nonostante essa sia oggi accusata di essere in stato confusionale dal suo capitalista fondatore, l’ing. De Benedetti (quello che “indovina chi viene a cena” ed è sempre un Grande della terra). Ha scritto la Repubblica che nei colloqui con il governo Gentiloni i francesi non hanno usato mezzi termini: “nel Sahara siete i benvenuti, ma ricordatevi: noi lì facciamo la guerra”. Questo significa essere coloni seri: lo faccio e lo dico. Dal 1967 Israele mette colonie in terre non sue, e se ne fa un vanto; il Congo fu addirittura chiamato Congo Belga, e l’Algeria, senza pudore, francese. Noi invece mandiamo l’esercito ma non lo diciamo a nessuno di troppo, lo facciamo con un mormorio. Quando, la prima volta, nel settembre 1911, l’Italia dichiarò guerra alla Turchia ottomana e andò a prendersi Tripoli, il re era in vacanza a San Rossore, il Presidente Giolitti, come se niente fosse, se ne stava a Dronero, e il Parlamento era chiuso per ferie; e nemmeno i giornalisti italiani che erano a Costantinopoli, in casa del Nemico, ne sapevano niente, tanto che non ne parlarono nei loro dispacci, come si può leggere oggi nelle corrispondenze di uno di loro, pubblicate da Bordeaux nel libro “Cronache Ottomane di Renato La Valle”, utili per capire qualcosa di quello che succede anche oggi. Dicono oggi che non andiamo nel Niger a combattere; chissà perché allora ci andiamo ben armati; ci fu una missione militare italiana veramente umanitaria, nel 1991-92, quando si trattava di risollevare l’Albania dal baratro, dopo la fine del suo comunismo alla cinese; ma lì l’esercito italiano ci andò senza portare armi, e non a caso l’operazione si chiamò “Pellicano”. Si portarono invece i camion, e ogni mattina i soldati partivano dalla base e andavano in montagna a portare cibo alle popolazioni stremate, e talvolta a spartire anche la loro colazione. La destra (allora c’era il Movimento Sociale Italiano) era furibonda, perché non si era mai visto un esercito senz’armi, indifeso. E il generale che comandava quei mille militari del contingente spiegò che la loro sicurezza stava proprio nel non avere armi, e perciò non essere percepiti come occupanti e nemici. Nel Niger saranno percepiti invece, insieme ai francesi, come le guardie armate dell’ “apartheid europeo”, che tornano nei vecchi domini per filtrare uomini donne e bambini e far passare solo le ricchezze, uranio o petrolio che siano. Inutilmente un missionario italiano in Niger, Mauro Armanino, ha scritto da laggiù che saremmo andati ad alimentare il terrorismo di Stato in un Paese di sabbia e di vento, uno dei più poveri del pianeta; il Parlamento, umiliato, ha vissuto il suo “mercoledì delle ceneri”, perché, già sciolto, è stato riconvocato apposta non per approvare fuori tempo massimo la legge che dà i diritti dello “ius soli”, ma per approvare fuori tempo massimo il decreto che intercetta il diritto di asilo e sparpaglia pezzi di forze armate italiane in trentacinque missioni su tre continenti. La cosa più bella è stata invece un incontro che col pubblico romano si è tenuto giovedì 18 gennaio nella Chiesa di San Gregorio al Celio a Roma tra Agnese Moro, Adriana Faranda e un altro ex brigatista, esponente di Prima Linea, Ernesto Balducchi, quello che poi consegnò le armi al cardinale Martini. Il tema era quello del carcere, se esso possa portare redenzione e riconciliazione, ma la testimonianza della figlia di Aldo Moro ha sfondato tutti i luoghi comuni e nell’incontro tra vittime e colpevoli ha mostrato l’indelebilità dell’umano, la vittoria sempre possibile sul male, la capacità della vita di rinascere buona, la stoltezza di un giudizio che fissi per sempre l’artefice del male o dell’orrore nella figura del mostro; e ciò senza il minimo sconto alla me sia stato vano il sacrificio di Moro, che non era solo il papà di Agnese, ma il padre della patria a cui aveva donato se stesso. La registrazione del discorso di Agnese Moro e dell’intero incontro si può ascoltare al link Agnese moria del proprio sgomento e del proprio dolore di fronte al torto patito; e dal carcere che non pareggia i conti attraverso una pena vendicativa si è passati a considerare il modo in cui la società stessa può, abbracciando e realizzando la giustizia e il diritto, far sì che nonMoro – Adriana Faranda. Del papa impegnato nel viaggio in quella “Patria grande” che è l’America Latina e che con grande franchezza ha affrontato i problemi che turbano la società e la Chiesa in Cile, pubblichiamo il discorso ai vescovi cileni, in cui ha loro detto che o si ricordano che la Chiesa è popolo, non un’élite di consacrati, e che essi stessi appartengono al popolo di Dio come servitori e non come padroni, o non sono nessuno, diventano una caricatura della vocazione ricevuta. Della nostra assemblea del 2 dicembre a Roma pubblichiamo l’intervento di Felice Scalia, con la lezione che ne ha ricavato a “tornare ad essere umani”, ad essere cristiani.
Con i più cordiali saluti www.chiesadituttichiesadeipoveri.it |
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