Lettera di
Ettore Masina
Dicembre 2007
Fine d’anno 2007: mentre cerchiamo di rendere le
nostre case più allegre e festose, con sorrisi di parenti e di
amici e voci di bambini, la cronaca appende ai
nostri alberi di Natale certificati di comparizione in tribunale e
bollettini medici di prognosi riservata. Provo a
elencare: a Bali, ancora una
volta, Wall Street e Bush
hanno deciso che la Terra può andare in malora purché
l’industria americana non debba ridimensionare i suoi profitti; in
non poche nazioni, compresa la nostra, i sistemi politici sembrano da
rottamare per eccesso di
astuzie (o credute tali); la società italiana – ci avverte
autorevolmente il Censis
– è ormai mucillaginosa, cioè disgregata e confusa; nel
nostro paese riprendono slancio gli amanti del nucleare, eccetera
eccetera. Fatti
incontrovertibili, descrizioni dell’oggi, impietose ma non
esagerate; e tuttavia c’è di peggio, a me sembra, e il
peggio riguarda il futuro: da cattedre molto
autorevoli veniamo avvertiti che la speranza è una patologia
mentale se non porta un bollino di garanzia da esse
rilasciato. Nella sua recente enciclica il
Papa esclude che le speranze umane abbiano un vero valore se non si
fondano in Cristo, e – forse senza saperlo – Salman
Rushdie, scrittore fra i più
importanti della nostra epoca, gli risponde che le speranze proposte
da quelli che egli sprezzantemente definisce “i preti” sono
inganni micidiali e pesti fondamentaliste.
Il messaggio che si ricava da questi interventi
è dunque che la speranza sine
glossa – quella dei bambini, degli
analfabeti, dei poveri, dei poeti, degli atei (tali per estenuazione,
per scandalo o, più semplicemente perchè
nessuno gli ha mai parlato di Dio), – è stupidità,
miopia culturale o rimbambimento. Che
ve ne pare?
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Quanto a me, io penso che le persone importanti vadano
ascoltate con reverente attenzione, soprattutto quando ci
mettono in guardia dalle sciocche illusioni di chi si affida a
un Babbo Natale della storia o al dio tappabuchi di cui parlava
Bonhoeffer; e
però, quando i Grandi ci esortano a gettare le nostre speranze
nei cassonetti dell’immondizia ideologica mi pare psicologicamente
ed eticamente
sano stabilire fra loro e me un certo distacco.
Benché la mia lunga vita sia stata ferita, più e più
volte, anche crudelmente, dal crollo di apparenti
certezze, non ho nessuna intenzione di rinunziare alle mie speranze,
a costo di soffrire, poi, per la loro mancata realizzazione. Stare
accanto a chi vuole un mondo migliore e lo ritiene possibile
significa dare alla propria vita una qualità che il realismo
dei profeti di sventura, come li chiamava papa Giovanni, non
consente. E’ come vivere dei grandi amori dei
quali non dimenticheremo mai le dolcezze e il calore; qualunque sia
il destino di queste esperienze, il rimpianto per ciò
che poteva essere e non fu non sbiadisce la certezza di avere avuto
attimi di gioia, di essere cresciuti “dentro”; e gli errori
compiuti non cancellano la grandezza di sogni e sentimenti che ci
stanarono dalla solitudine del nostro egoismo.
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Penso alla speranza come al respiro della storia, quella
individuale e quella universale. “L’ottimismo
della volontà, contrapposto al pessimismo della ragione”,
la definiva Gramsci, dal buio
del carcere in cui il fascismo lo faceva morire poco a poco. La
speranza non nasce soltanto dalla ragione ma anche da una
misteriosa propensione che forse è inscritta nella natura
umana. Il grande La Pira, sul quale si abbattè
tante volte il sarcasmo dei politici senza ideali, ne parlava, da
mistico, come di una navigazione su mari perigliosi, in cui,
nonostante le tempeste, il timoniere sente
che la sua rotta è accompagnata da un forza positiva. Talvolta
quella forza appare come una deriva, ma sempre sospinge verso
orizzonti di luce.
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Se il respiro della storia è
avvelenato dagli inquinamenti della violenza (quella brutale delle
guerre e del terrorismo in tutte le sue versioni e quella più
sottile ma non meno orribile della cosiddetta “difesa della
democrazia e della libertà”: Guantanamo
e dintorni, per intenderci), molte speranze hanno vita breve; ma è
sorprendente vedere come subito altre fioriscano. L’ho già
raccontato più volte ma non mi stanco di ripeterlo perchè
mi pare emblematico: la
notizia che i sandinisti
avevano perso le elezioni e che quindi il Nicaragua sarebbe
precipitato nuovamente nella miseria, mi giunse a Soweto
mentre stavo per incontrare Mandela,
appena liberato dopo tanti anni di carcere: una speranza veniva
schiacciata da Reagan e
un’altra dispiegava le ali. Mi pare che questo avvenga in tutti i
tempi: in questi giorni, per esempio, mentre, se non spenta, almeno
“contenuta” sembra la rivoluzione zapatista,
i popoli indigeni della Bolivia e dell’Ecuador lottano per
riscattare la loro storia di oppressione;
e la vicenda della moratoria per la pena di morte mostra come
speranze apparentemente assurde possano d’un tratto sbocciare in
conquiste politiche di grande rilievo.
L’anno prossimo compirò ottant’anni;
se osservo la carta geopolitica della Terra così com’era
disegnata quando sono nato (l’Africa e l’Asia schiacciate dalla
ferocia del colonialismo, l’America centromeridionale
ridotta a un grappolo di
repubbliche delle banane, in Italia il fascismo, in Unione Sovietica
la sedicente dittatura del proletariato, la Germania spinta dalla
miseria verso il nazismo, il Portogallo nelle mani di Salazar,
nell’Europa orientale un coacervo di regni da operetta, milioni di
italiani, irlandesi, greci, polacchi costretti a un’emigrazione
che, nella sua disperata inermità,
prefigurava quella odierna dei popoli del Sud, la tragedia negra
negli Stati Uniti, la condizione femminile ovunque segnata da una
feroce minorità eccetera) posso tracciare facilmente un
censimento di speranze che allora apparivano al limite della follìa
ma che hanno mutato il mondo. Ottusa è la cultura della
realpolitik, aveva
ragione Paolo VI, invece, quando diceva che vi
sono periodi della storia in cui l’utopia è l’unico
realismo possibile.
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Se la speranza risulta
così odiosa a chi pretende di dirigere la storia è
proprio perchè essa
contiene una dose di irrazionalità, non si lascia smentire
dall’evidenza, non cessa di respirare nelle carceri e nei lager,
almeno sin quando un uomo riesce a rimanere tale. La speranza non
soggiorna nelle corti dei Potenti né si esibisce sui
palcoscenici dei Filosofi. Veste il grembiule di una bambina (Mounier
parlava della piccola speranza che ci dà il buongiorno
ogni mattina) piuttosto che i paramenti di un gran sacerdote o le
decorazioni di un generalissimo. Possiamo trovarla e dialogare con
lei nelle favelas, nelle carceri e negli ospedali piuttosto che nei
saloni dei congressi o nelle grandi assemblee dei partiti al potere o
nei solenni pontificali delle basiliche. Non nei grandi luoghi dove
la Storia con la S maiuscola è l’invitata d’onore ma dove
la “piccola” gente – magari al di là
delle transenne poste dalla polizia a tutela dei
Grandi – lavora, soffre, e ama. E’ qui, in
questi luoghi ignorati dai telegiornali ma notissimi a Dio che, a me
pare, il Papa avrebbe potuto trovare materiale
prezioso per la sua recente enciclica sulla speranza. Come dice il
pastore Paolo Ricca, “Se vuoi udire la parola di Dio, porta
attenzione alla parola degli uomini… Non in voci celesti, in
rivelazioni straordinarie, in esperienze eccezionali parla il
Signore, ma preferibilmente nel mondo del quotidiano, nella normalità
di esistenze comuni”.
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Quando ho letto che Benedetto XVI
avrebbe pubblicato un suo documento sulla speranza, ne sono stato
felice, il tema della speranza sembrandomi centrale nella vita della
Chiesa. “Siate pronti a rendere ragione della speranza che è
in noi” ci esorta san
Pietro. E pensavo che papa
Ratzinger si sarebbe rivolto
all’umanità intera, essendo la mancanza di speranza un
profondo malessere che connota il nostro tempo. Pensavo anche
(presuntuoso come sono!) che egli, dall’alto della sua cattedra,
avrebbe mostrato come un germe del Regno di Dio sia
presente in tutti i luoghi in cui gruppi di persone lavorano,
rischiano e soffrono per un mondo migliore. Del resto, molte speranze
“soltanto umane” sono tali perché la Chiesa, in
alcune epoche e vicende, le ha avversate come estranee alla
fede. “Poiché nelle chiese veniva
proclamato un dio senza speranza, i poveri andarono a trovare
speranze senza Dio” ha scritto il teologo Moltmann.
Il grande
peccato della Chiesa pre-conciliare
è stato quello di dimenticare il criterio fondamentale del
Giudizio di Dio, quello della liberazione dei poveri: Matteo
XXV, 31-46. Ma il Papa, che
al Giudizio ha dedicato un lungo paragrafo della sua enciclica, quel
vangelo non lo ha citato.
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Quando Giovanni XXIII ha
voluto parlare al mondo di un problema mondiale – la pace -, ha
indirizzato la sua enciclica non soltanto ai cattolici e neppure
soltanto ai cristiani ma a loro e a” tutti gli uomini di
buona volontà”. Un documento acquista
validità specifica in base al soggetto cui è rivolto.
Il mondo intese l’appello di papa
Roncalli, lo
pubblicarono nelle loro prime pagine
persino i giornali sovietici. L’enciclica di Benedetto XVI è
indirizzata “ai
vescovi, ai presbiteri e ai
diaconi, alle persone consacrate e a tutti i fedeli laici “. Un
documento interno alla Chiesa? Un discorso a porte chiuse?
No: le porte sono silenziosamente aperte anche ai
filosofi e agli storici, le due categorie di persone alle quali papa
Ratzinger guarda
come al sale della Terra. Accanto ai grandi santi compaiono Platone e
Bacone, Kant,
Engels, Marx, Lenin, Adorno, Horkheimer…
Compaiono le loro teorie, che vengono
riassunte e confutate con serena e acuta sensibilità. Il
disegno ideologico – e dunque l’asfissia – di certe speranze,
catturate e distorte da intellettuali senza umiltà viene
pacatamente denunziato. Ciò che manca nel documento papale
è l’attenzione al dramma e alla santità di milioni di
persone che affrontarono immensi pericoli e sofferenze – o
addirittura andarono a morire – perché i più poveri
avessero dignità e i figli non fossero segnati da antiche
oppressioni. Il secolo XX non è stato soltanto la terra del
nazismo, dello stalinismo, del capitalismo selvaggio ma anche della
meno vistosa ma non meno
gigantesca epopea dei resistenti alla violenza dell’uomo
sull’uomo e dei conquistatori di nuove libertà.
Non erano cristiani? Le lotte dei poveri del secolo
scorso cominciano con i campesinos
messicani che marciano sulle città inalberando stendardi con
la Madonna di Guadalupe, e
con i servi della gleba russi che scendono in piazza dietro i pope
che levano la croce contro i cosacchi della repressione. Anche
se gli ecclesiastici non lo compresero, un cristianesimo naturaliter
tale, sotterraneo, inconsapevole segnò
moltissimi, forse tutti, dei resistenti: “Vado a preparare
domani che cantano” scrive un maquìs
comunista”. Nelle camere di tortura e fra le rovine dei villaggi
devastati per rappresaglia, le speranze continuano a vivere anche
quando le loro parole sono come annegate dalle lacrime. Cristiane o
no? “Domanderanno: quando mai Signore ti vedemmo?”. E
Lui sorriderà abbracciando questi suoi
figli prediletti,
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Credo che noi cattolici dobbiamo pregare per questo
nostro papa e Natale è un buon giorno per farlo. Egli sembra
racchiuso, come certi antichi orologi, in una campana di vetro che
impedisce che vi entri la polvere (la polvere della storia, nel suo
caso: le grida di dolore e quelle di gioia di tanta parte
dell’umanità).
Desideriamo che l’Angelo dei pastori (non si definisce pastore
anche il papa?) lo stani dal suo vegliare fra i libri e lo spinga là
dove risuona incessantemente il grido che ogni cristiano dovrebbe
fare suo: “ O voi che giacete nella polvere, alzatevi e cantate”.
Cari saluti
Ettore Masina
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